Evanescence
The Open Door

2006, Wind-Up Records
Gothic

Recensione di Marco Belafatti - Pubblicata in data: 05/09/11

Dopo aver conquistato il mondo intero con l'album d'esordio “Fallen”, un concentrato di sonorità gothic metal rilette in chiave leggera (e, di conseguenza, per la prima volta nella storia della musica idolatrate presso un pubblico spudoratamente mainstream) in grado di vendere la bellezza di venti milioni di copie in ogni angolo del pianeta, gli Evanescence attraversano un periodo di turbolenze durante il quale il chitarrista e fondatore Ben Moody (oggi impegnato col progetto We Are The Fallen, dedicato ai nostalgici più incalliti) lascia la band nelle mani della bella vocalist Amy Lee a causa inconciliabili divergenze artistiche e personali. Uno scossone violento, che trascina dietro di sé parecchi dubbi sul futuro della formazione dell'Arkansas, costretta ad assoldare in breve tempo il chitarrista Terry Balsamo e a mettersi d'impegno per comporre il seguito dell'acclamato debutto. Ai microfoni, Amy, indiscussa leader carismatica del progetto, promette una ventata d'aria fresca, ma il singolo “Call Me When You're Sober”, antipasto fin troppo spensierato ed easy-listening per gli standard del gruppo, pubblicato nella calda estate del 2006, non lascia ben sperare. Verso la fine del mese di settembre dello stesso anno, infine, “The Open Door” vede la luce del sole. Una cosa appare subito chiara: nelle tredici nuove tracce poco o nulla è rimasto delle sonorità di “Fallen”.

I cambiamenti si fanno sentire sin dall'opener “Sweet Sacrifice”: le chitarre sono dirette e pesanti, al limite del nu metal. Le orchestrazioni drammatiche che avevano caratterizzato l'album precedente non sono più in primo piano, fungono semmai da complemento alle chitarre, tuttavia questa canzone è destinata a rimanere un episodio isolato nell'insieme. Anche per quanto riguarda le liriche notiamo una rivoluzione. Niente più drammi esistenziali, ma molta più fiducia in se stessi: la voce di Amy recita “la paura è soltanto nelle nostre menti”. E se, musicalmente parlando, “Call Me When You're Sober” presenta il lato più frivolo e “pop” della band, il testo di questa canzone ci regala uno splendido affresco di quanto possa essere frustrante una relazione sentimentale alla fine delle sue possibilità di esistere (stiamo parlando della storia tra Amy Lee e Shaun Morgan, cantante della band sudafricana Seether, conclusasi in maniera piuttosto brusca). Con la terza traccia, “Weight Of The world”, i toni si surriscaldano; anche qui le chitarre seguono lo stesso schema della traccia iniziale, ma possiamo trovare parti pesanti seguite da altre pacate e riflessive dove troviamo note di tastiera che ricordano il suono di un carillon e una chitarra acustica.

Analogamente a quanto proposto in “Fallen”, uno degli highlight dell'opera è la quarta traccia. “Lithium”, non è però una ballata struggente e lenta in stile “My immortal” (forse il brano più conosciuto dei Nostri dopo l'immortale “Bring Me To Life”), ma un pianto disperato tradotto in musica rock, adornato da un'elegante vena dark nelle elegiache note del pianoforte e degli archi, nonché nella voce di Amy, che rispetto al debutto sembra lanciarsi in linee vocali più ardite, proponendo talvolta alcuni accenni simil-operistici. “Cloud Nine” presenta parti di elettronica e una voce effettata, per poi sfociare in un ritornello veramente bello e regalarci un ponte dove pianoforte e chitarre duettano seguendo ritmi sincopati. “Snow White Queen” è la trasposizione della Björk di “Medúlla” (un'artista molto apprezzata da Amy Lee) nello stile degli Evanescence, ma l'esperimento può considerarsi riuscito solamente a metà. Con “Lacrymosa” la passione per i cori operistici e la musica classica si spinge oltre il consueto, andando addirittura a scomodare Mozart ed il suo “Requiem” per un esperimento in fin dei conti gradevole che sfocia in un finale epico e sinfonico, nonostante il brano denoti un certo manierismo di fondo. “Like You” è una ballata intrisa di morte nella quale regna un'atmosfera da fiaba dark sia nella musica, sia nelle parole (il brano è ispirato alla morte della sorellina di Amy, avvenuta all'epoca in cui l'artista aveva soli sei anni). “Lose Control” narra forse d'innocenza perduta ed è irresistibilmente ipnotica sia nelle strofe (dove il piano fa da padrone di casa), sia nel potente ritornello, sia nel bridge, fino al lento svanire delle note in chiusura.

“The Only One” è un invito alla non rassegnazione; il dolore è visto come un sentimento comune (“tutti noi siamo sofferenti, smarriti e feriti”) ed, ancora una volta, è il pianoforte di Amy a dare quel tocco in più e ad introdurci nella riuscitissima “Your Star”, ennesima, perfetta sintesi di quanto oltre, rispetto al proprio passato, la band abbia saputo spingersi in termini di originalità ed evoluzione. “All That I'm Living For", con quel malinconico sottofondo d'archi, il suo testo riflessivo e l'arpeggio di chitarra nelle strofe sarebbe una canzone perfetta per una colonna sonora, ma in questo contesto rischia di suonare piuttosto canonica. Nell'incipit della conclusiva “Good Enough”, eseguita interamente al pianoforte con il prestigioso accompagnamento degli archi, percepiamo una struggente malinconia, che lascia però spazio ad un'ondata di meritato ottimismo con l'arrivo della voce a creare un vero duetto con il proprio strumento. Finale ad elevato tasso diabetico per un album che riserva non poche sorprese e che, nonostante alcuni alti e bassi e certi passaggi in cui Amy Lee ha voluto calcare un po' troppo la mano con la sperimentazione, fatica tuttora a staccarsi dal cuore di coloro che hanno amato questa band nel corso della sua carriera.

Con la pubblicazione di questo disco, i Nostri sconfiggono i fantasmi del passato, almeno a livello formale: l'eccessiva e talvolta inutile orecchiabilità, l'elettronica che mai riusciva a trovare la propria collocazione ideale, il pianoforte ingiustamente relegato in secondo piano, i testi a volte scontati ed adolescenziali (anche se "Fallen" rimane pur sempre un gradino sopra per svariati motivi)... Purtroppo “The Open Door” rappresenterà allo stesso tempo un punto di non ritorno per gli Evanescence, che nel giro di poco tempo verranno privati del loro status di chart breakers (l'album venderà soltanto cinque milioni di copie, un quarto di quelle vendute da “Fallen”) e perderanno per strada il chitarrista John LeCompt e il batterista Rocky Gray, licenziati in tronco da una sempre più autoritaria Amy Lee, la quale nel maggio del 2007 sposerà il terapista Josh Hartzler e si ritirerà dalle scene per più di due anni lasciando i fan in balia di se stessi (forse pianificando una carriera solista che mai ha potuto vedere la luce) fino all'annuncio di un imminente ritorno degli Evanescence. Ma questa è un'altra storia...





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