Skid Row
Skid Row

1989, Atlantic Records
Hard Rock

Recensione di Daniele Carlucci - Pubblicata in data: 04/01/10

Nelle stesse terre in cui avevano già trovato gloria i Bon Jovi e Bruce Springsteen, verso la fine degli anni ’80 “esplosero” anche gli Skid Row. Nel piccolo stato del New Jersey, dall’incontro tra il chitarrista Dave Sabo, “The Snake” per gli amici, e il bassista Rachel Bolan, vide la luce un progetto che risulterà essere tra i più riusciti di sempre in ambito hard rock. Dopo aver reclutato Scott Hill (seconda chitarra) e Rob Affuso (batteria), il gruppo si mise alla ricerca di un vocalist, compito che si rivelerà molto complesso. Ci volle infatti quasi un anno per trovarne uno all’altezza, ma, col senno di poi, si può dire tranquillamente che ne è valsa la pena, perché non era proprio possibile scovare di meglio: dal cilindro venne estratto Sebastian Bach, un ragazzo nato alle Bahamas e cresciuto in Canada, che nella vita non poteva fare altro che il cantante. Lo stile della band si definisce subito in uno street rock selvaggio e melodico, capace di toccare sia l’heavy che l’hair metal.

L’esordio per gli Skid Row si materializza nel 1989 con l’omonimo album, sotto la produzione del noto Michael Wagener e in copertina vede la band in chiaro-scuro proprio in quella che in inglese si definisce come skid row, cioè una strada trasandata e spesso mal frequentata. Vengono scelti suoni che esaltino i riff e gli armonici artificiali (molto utilizzati) delle chitarre e l’impasto con basso e batteria conferisce una solidità strutturale che permette a Bach di ricamarvi sopra delle indimenticabili linee vocali. L’album ha un successo clamoroso ed immediato (5 dischi di platino) e la band si ritrova ad essere tra le principali attrazioni a livello globale, quasi inaspettatamente: i musicisti sono superlativi, ma a dare lo status di supergruppo ci pensa Sebastian: non solo sopraffine doti canore, ma personalità e carisma da vendere. Quella rock attitude che non si guadagna da nessuna parte, ma si possiede sin dalla nascita. A tutto ciò si deve aggiungere anche il fatto che il vocalist aveva prerogative che gli fecero ottenere la fama di sex symbol: ovviamente questo non fece altro che accrescere l’interesse attorno agli Skid Row.

Fin dall’opener “Big Guns” si viene catapultati di peso in quelle strade in cui le notti diventavano bollenti e il divertimento è assicurato. Strofe trascinanti e ritornelli fatti apposta per essere cantati a squarciagola: musica festosa, efficace e diretta. Chitarre mai banali o superflue con soli brevi e melodiosi. Per definire essenziale questo album basterebbe dire che al suo interno sono contenute tre super-hit, tra le più famose di sempre. “18 And Life” racconta una vicenda letta da Sabo su un giornale e cioè la storia di Ricky, un ragazzo con una situazione familiare complicata, condannato all’ergastolo per aver ucciso un amico, dopo avergli sparato con una pistola che credeva fosse scarica. L’intro acustico crea un’atmosfera struggente e l’intensità aumenta con l’entrata in scena delle distorsioni, sino a culminare in refrain così armoniosi che definire coinvolgenti è, forse, quasi un eufemismo. Dopo l’ottimo assolo, il finale è un crescendo nell’interpretazione magistrale di Bach. Lo stesso vocalist ha definito “I Remember You” come la canzone più gettonata nei balli di fine anno scolastico del 1990 negli Stati Uniti. In effetti si parla di una splendida canzone d’amore che veste a pennello l’etichetta di ballad: testo mieloso e musica soave impreziositi, ancora una volta, dall’ottimo lavoro alle chitarre da parte di “Snake” Sabo e Scott Hill. I toni diventano decisamente più roboanti con “Youth Gone Wild”, vero e proprio inno di ribellione per un’intera generazione: canzone potente, che travolge con la carica e molto comunicativa, che sembra quasi aggredire l’ascoltatore in alcuni frangenti.
Sarebbe però molto riduttivo parlare esclusivamente di questi tre brani, perché “Skid Row” è molto di più: non vi è un solo pezzo che non valga la pena di essere ascoltato. Dalle più veloci “Sweet Little Sister” e “Makin’ A Mess” ai ritmi più pacati, ma non meno efficaci, di “Piece Of Me”, “Here I Am”, “Can't Stand The Heartache”, “Rattlesnake Shake” e “Midnight / Tornado”.  Tutte canzoni in cui traspare un’ incredibile “fame” da parte della band del New Jersey che non spara a salve nemmeno un colpo per quanto riguarda il debut album.
Il contributo di Bach nel songwriting è quasi nullo perchè il disco era praticamente pronto quando il cantante è entrato nel gruppo: la maggior parte delle composizioni portano la firma di Rachel Bolan e “Snake” Sabo, i quali avevano già scritto molto materiale assieme, ancor prima che la creatura Skid Row prendesse forma.

In un periodo in cui i ragazzi andavano in giro sfoggiando magliette con lo “smile” (Nirvana) e la “croce” di “Appetite For Destruction”, gli Skid Row vennero accolti, inzialmente, come l’ennesimo gruppo glam con troppi fronzoli: se il bell’aspetto dei Nostri poteva in effetti ingannare, la gente non aveva ancora fatto i conti con la loro voglia di spaccare il mondo. Gli Skid Row erano la rivincita dell’hard rock più incavolato, in un momento in cui anche il rock tendeva pericolosamente verso il pop (vedi Bon Jovi ad esempio). La band sembra stare alle regole del gioco, ma in realtà è tutta apparenza: entrano nel mondo della musica come un uragano e ne sconvolgono i piani, diventando il manifesto di un’intera generazione.

Il seguito di “Skid Row” sarà l’altrettanto osannato “Slave To The Grind” (1991), altro capolavoro hard rock, che farà entrare i cinque nella leggenda. Come però troppo spesso accade, la favola non si conclude con il lieto fine: già “Subhuman Race” (1995) segna un grosso passo indietro rispetto ai lavori precedenti ed è solo il preambolo che vedrà l’abbandono di Sebastian Bach, in seguito al quale la band non riuscirà più a rialzarsi, nonostante la pubblicazione di “Thickskin” (2003) e “Revolutions Per Minute” (2006).



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