Bring Me The Horizon
amo

2019, Sony, RCA Records
Rock elettronico/Pop Rock

Recensione di Dario Fabbri - Pubblicata in data: 28/01/19

Tra i dischi più attesi di inizio 2019 si è di certo ritagliato un posto "amo", sesta fatica degli inglesi Bring Me The Horizon. Il gruppo ha sviluppato nel corso degli anni un graduale distacco dalle proprie origini deathcore, genere che ha caratterizzato i primi due album in studio della band, per poi sfociare nell'alternative metal. Con "amo" il distacco è diventato totale. Il lotto è composto da sonorità tendenti all'indie-pop, mescolate al sound alternative metal dei precedenti dischi e da abbondanti basi di musica elettronica. I nostri hanno composto un album che punta alla sperimentazione e alla scoperta di nuovi lidi musicali, lasciando spesso da parte la componente più heavy del proprio sound. Come preannunciato, il disco ha diviso il pubblico, la critica e i fan tra chi ha descritto "amo" come un lavoro coraggioso e ben riuscito nell'ambito della discografia dei britannici e chi parla, invece, di un "suicidio artistico" da parte del quintetto britannico.

 

Prima di entrare nel dettaglio, è necessaria un'ulteriore premessa: per quanto alcune scelte prese dalla band siano fortemente discutibili, non sarà sicuramente "amo" a determinare la "morte artistica" dei Bring Me The Horizon. D'altra parte però, il neo più evidente di questo album è la mancanza d'equilibrio, di coesione tra le parti: la sperimentazione viene combinata a una forte orecchiabilità, le tracce indie-pop, o di pura musica elettronica in alcuni casi, vengono accostate a brani tendenti al metal (per esempio la combo "Sugar Ice Honey & Tea" e "Why You Gotta Kick Me When I'm Down?"). Alcuni di coloro che hanno già commentato la pubblicazione hanno fatto notare un tentativo di approccio sperimentale in pieno stile "A Thousand Suns" dei Linkin Park, idoli indiscussi del frontman Oli Sykes. Tuttavia, in confronto ad "amo", il disco del gruppo di Mike Shinoda e Chester Bennington gode di una migliore omogeneità nonostante l'alto livello di sperimentazione che caratterizza quasi tutte le tracce. Per di più, questo non è l'album della conferma, cosa che invece ci si aspettava da una band giunta al sesto lavoro in studio. I dubbi di chi apprezza il sound più heavy sono legittimi, infatti le canzoni che richiamano al passato sono ben poche: solo il singolo "MANTRA", "Wonderful Life" (in collaborazione con Dani Filth dei Cradle Of Faith) e la già citata "Sugar Ice Honey & Tea" fanno parte del repertorio tendente all'alternative metal e sono tra le migliori delle tredici tracce proposte. Per quanto riguarda il lato più sperimentale, "Nihilist Blues", "In The Dark" e "Why You Gotta Kick Me When I'm Down?" presentano elementi diversi tra di loro, ma tutte e tre sono riconducibili a un indie-pop elettronico spesso non troppo convincente e che non si combina nel migliore dei modi col resto del disco. Se la voglia di azzardare è legittima e ben comprensibile, ciò che non si riesce a spiegare sono i due singoli "medicine" e "Mother Tongue", brani a tutti gli effetti pop che non brillano per ispirazione.

Una delle migliori tracce del lotto è invece la conclusiva "I Don't Know What To Say": un brano dalle sfumature pop-rock accompagnato per quasi tutta la propria durata da un'apprezzabile base di violini, per poi sfociare in un assolo di chitarra d'effetto verso la fine. Altre note positive sono l'opener "I Apologise If You Feel Something" e "Fresh Bruises", tracce per lo più strumentali e sperimentali che ripropongono elementi di musica elettronica in modo originale, creando una certa atmosfera. Al contrario "Ouch", anch'essa per lo più strumentale, non lascia molto all'ascoltatore se non una vocina robotica che ci ricorda che tutto questo "finirà in lacrime". Riprendendo il paragone con "A Thousand Suns" dei Linkin Park, in riferimento al numero delle canzoni per lo più strumentali, le tracce di questo tipo furono inserite ai fini della trama generale e per collegare due canzoni che non sarebbero state bene una di seguito all'altra. Cosa che invece in "amo" non si riscontra, contribuendo a quella mancanza d'equilibrio citata precedentemente.

 

Arrivati a questo punto, non fa male ribadire che "amo" non segnerà la fine di questo gruppo, però, è necessario sottolineare il fatto che questo lavoro non presenta un'alchimia, una sorta di collante che avrebbe reso il tutto più omogeneo e meno confusionario. Introdotto da alcuni come "il disco più ambizioso del 2019", "amo" ha goduto di un'attenzione mediatica incredibile. Questo hype ha generato due schieramenti diametralmente opposti: chi non vedeva l'ora di ascoltare il nuovo sound del gruppo (critica e fan degli ultimi lavori in primis) e chi invece credeva in un disastro annunciato dall'altra (detrattori e fan di vecchia data). Le crepe che la struttura di "amo" presenta sono ben evidenti, ma probabilmente non sono tali da far cascare in migliaia di pezzi tutto ciò che è stato fatto, soprattutto gli elementi più positivi del disco.





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