Burzum
Sôl Austan, Mâni Vestan

2013, Byelobog Productions
Ambient

Il ritorno ambient di Burzum non fa esultare ma porta con sé qualcosa da dire...
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 21/05/13

Ha fatto trenta e ora ha fatto trentuno. Da quando il nostro non vede più il sole a scacchi non si è praticamente mai fermato: tre album progressivamente meno interessanti, come “Belus”, “Fallen” e “Umskiptar”, una sorta di compilation/best-of e ora il ritorno del Burzum in versione ambient.

Sôl Austan, Mâni Vestan” è il nome della nuova opera, decimo album in carriera, arrivata quasi in sordina, senza ormai più quel carico di curiosità nell’ascoltare qualcosa di nuovo del Conte, bene o male un personaggio pesantissimo nel panorama black metal e non solo. La cadenza annuale dei suoi lavori, le diverse dichiarazioni pubbliche al limite del T.S.O. e un’immagine ormai edulcorata (oltre che canuta, per non dire comica), hanno fatto calare una certa patina di malcelata indifferenza nei suoi confronti, “ricordandoci” del nuovo Burzum solo in casi particolari (vedi deliranti dichiarazioni pubbliche o con fotogallery spassosissime). Insomma, diciamo che il ritorno alla libertà poteva essere gestito meglio, con più oculatezza, ma possiamo anche capire lo stato d’animo di Varg e la sua voglia di ripartire.

Dunque, lo zio Burzy l’aveva detto, “Sôl Austan, Mâni Vestan” sarebbe stato un ritorno a un disco interamente strumentale, elettronico o per meglio dire ambient, andando a inserirsi in un’ideale trilogia con i due album ambient prodotti in gabbia: “Dauði Baldrs” e “Hliðskjálf”, dai toni medioevali e rudimentali il primo, decisamente più riuscito il secondo. Due dischi in un certo senso forzati, nati dall’impossibilità di suonare in carcere alcuno strumento all’infuori di una pianola e senza la possibilità di usare un microfono (ricordiamo l’intenzione in “Dauði Baldrs” era di recitare il concept del disco, la morte del dio Baldr). Due lavori nati per motivi contingenti a cui si affianca ora “A est del sole, a ovest della luna” (questa la traduzione del titolo), nato invece dalla ferma intenzione di accompagnare musicalmente il film girato con la moglie Marie Cachet, intitolato “ForeBears” (qui il trailer). Un concept manco a dirlo legato al paganesimo, tra discese nell’oscurità e ritorni alla luce.

Una colonna sonora dunque (in verità nel film compariranno anche altre tracce), musica lenta, rilassata, con una sottile vena epica tipica del mondo burzumiano. Cinquantotto minuti di cui a ben vedere c’è poco da dire, il tocco di Varg si percepisce anche in questa tornata, benchè alle prese con musica molto diversa dal suo black metal tetragono e ipnotico. La ripetitività è sempre quella, il suono scarno (a questo punto pensiamo volutamente), corde di chitarra pizzicate con delicatezza su una base synth che “fa viaggiare” l’ascoltatore. Poche digressioni dal canovaccio, un disco dobbiamo dire non totalmente riuscito, anni luce dagli eperimenti analoghi di colleghi vicini o lontani, pensiamo ai connazionali Ulver con “Svidd Neger” o le eteree e sognanti colonne sonore di Jonny Greenwood dei Radiohead (bellissima l’ultima per “The Master”). Musicisti decisamente più dotati, ma davanti ai quali Burzum contrappone comunque momenti di interesse senza sfigurare, ad esempio il trittico “Haugaeldr”, “Feðrahellir”, “Sôlarguði” è notevole, sapendo stemperare in modo autorevole solennità ed epicità in tracce impalpabili ma che in qualche modo vi entreranno dentro. È come se nonostante tutto il Conte riuscisse a comunicare il suo messaggio, che sia sparso a sprazzi lungo un’ora di musica poco importa, la sua firma c’è sempre.

Ed è forse questo l’unico motivo per tornare a occuparsi di Burzum, al di là dell’essere diventato ormai “personaggio macchietta”, anche in produzioni non fortunatissime c’è lo spirito, c’è la passione, la volontà, c’è l’umanità del musicista. In un mondo di musica da “happy meal”, anche le produzioni seriali del Conte hanno molto da dire. Che siano poche parole (a nostro avviso già la scelta del titolo, evocativo come da tradizione della casa, potrebbe subito conquistare qualche sostenitore accanito), sensazioni, visioni, qualcosa si trova sempre. Certo, molto fa anche il moniker stesso, giustificato da una carriera e da una storia personale che anche i sassi conoscono. Il voto in calce sarebbe inutile, ormai Burzum è un’entità a se stante, che trascende dalle valutazioni (a maggior ragione un album così particolare), chissà ancora quanti altri lavori sarà in grado di partorire.



01. Sôl austan ("East of the Sun")

02. Rûnar munt þû finna ("You shall find Secrets")

03. Sôlarrâs ("Sun-journey")

04. Haugaeldr ("Burial Mound Fire")

05. Feðrahellir ("Forebear-Cave")

06. Sôlarguði ("Sun-god")

07. Ganga at sôlu ("Deasil")

08. Hîð ("Bear's Lair")

09. Heljarmyrkr ("Death's Darkness")

10. Mâni vestan ("West of the Moon")

11. Sôlbjörg ("Sunset")

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