Depeche Mode
Delta Machine

2013, Columbia/Sony
Elettronica

"Delta Machine" ribadisce la tempra di uno smalto che il tempo non riesce proprio a scalfire
Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 21/03/13

Finalmente, i Depeche Mode sono tornati!

Sì, lo so bene che il come-back ufficiale del power trio birtannico – probabilmente, tra gli attori più importanti della storia musicale per definire i canoni new wave, salvo poi disfarli sistematicamente con ricostruzioni elettroniche sempre più diverse ed avventurose – è datato 1997 con “Ultra”, l’album del pentimento dell’ex tossico e litigioso Dave Gahan e conseguente ripresa di una carriera che, tuttavia, stentava a ritrovare i fasti di un antico splendore. Perché “Exciter” e “Sounds Of The Universe”, nel loro minimalismo, suonavano eccessivamente sterili e cerebrali, mentre “Playing The Angel” era troppo indeciso tra la scolastica sperimentazione e la lascivia melodia del pop. Ci voleva decisamente un viaggio su questa meravigliosa, potente, “Delta Machine” per ritrovare l’ispirazione, il cuore, il cervello, nonché l’infinita classe - stavolta non fine a se stessa - della band.

Innanzitutto, fondamentale l’esperienza di Gahan con i Soulsavers, da cui il buon Dave prende senza chiedere il permesso il nervo soul, il riverbero della dannazione che il suo tono caldo e profondo riesce così facilmente a veicolare, e lo trapianta in toto nella struttura melodica dell’elettronica dei Depeche Mode. Martin Gore, quindi, asseconda sottolineando il tutto con un filo mai invasivo di chitarra elettrica solitaria (d’altronde, l’exploit dei connazionali The xx non era decisamente ignorabile), ed Andy Fletcher imbastisce su tutto un tappeto elettronico in arrangiamento sempre sorprendente e ricco di strati e punteggiature come solo i fuoriclasse sanno costruire. Ecco, dunque, confezionato forse il disco più rock a firma Depeche Mode dai tempi di “Songs Of Faith And Devotion”, pur non essendo minimamente ricco e barocco come il genere imporrebbe. Le canzoni, difatti, sono tutte piuttosto essenziali, tuttavia compatte attorno ad un corpo centrale – il già citato carattere soul e blues – ed orientate ad un’insinuante emozione che si fa strada nelle orecchie pian piano, in punta di piedi, ascolto dopo ascolto.

Non aspettatevi, dunque, il singolo facilone immediatamente digeribile: “Heaven”, in questo senso, mette sin da subito le cose in chiaro; pur tuttavia, allo stesso modo non dovete pensare di non venir travolti dalle armonie, e vi basterà il sinfonismo dell’iniziale “Welcome To My World” per capire che state per intraprendere un viaggio in una località davvero particolare, dove il rosso della melodia abbraccia il grigio del silicio (“Secret To The End”, “Broken”), e dove anche le riletture pop dei ‘90s assumono un carattere davvero speciale (“Soft Touch/Raw Nerve” – direttamente dalla Madonna di Ray Of Light" prodotta da William Orbit, o “Should Be Higher” e “Soothe My Soul”, dove si ritrova il gusto della percussione martellante pre-industrial alla “Violator”).

Ora: prima di salire a bordo di questa navicella che vi porterà in una città del futuro ricreata secondo i canoni del nostro presente, è bene che sappiate che il viaggio non sarà certo di quelli troppo comodi. Perché le strade lì sono spesso contorte, all’apparenza disorientanti, e richiedono un minimo di attenzione per poter essere percorse con la dovuta sicurezza; allo stesso modo, tuttavia, è bene che siate consci del fatto che vi attendono una skyline unica, ed un clima tiepidamente primaverile che esorta alla passeggiata esplorativa con sin troppa facilità. Con questa consapevolezza, è sin troppo piacevole rimarcare come l’opera numero 13 nella carriera oramai ultra trentennale dei Depeche Mode sia il classico album che ribadisce la tempra di uno smalto che il tempo non riesce a scalfire, per quanto duramente esso possa essere attaccato – spesso anche proprio dalla band stessa.

Allacciate dunque le cinture, e buon viaggio.




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