H.E.A.T
Into The Great Unknown

2017, GAIN Sony
Hard rock

Recensione di Marilena Ferranti - Pubblicata in data: 23/09/17

Mai titolo fu più azzeccato per un album che farà discutere a lungo a causa dello stato di spaesamento in cui ha gettato i fans di lunga data di questa promettente band svedese al quinto album.
 

"Into the Great Unknown", uscito il 22 settembre per GAIN, terzo disco con Erik Grönwall alla voce, è un vero e proprio salto nell'ignoto per chi era abituato allo stile melodico e più "tipico" della formazione. I recenti avvenimenti - l'uscita inaspettata dal gruppo del chitarrista Eric Rivers e la pubblicazione del singolo "Time On Our Side" avevano fatto tremare le ginocchia a più di qualche menagramo che aveva previsto un lento e inesorabile declino già annunciato all'orizzonte. Già il primo singolo, un pezzo che scaraventava ogni tipo di riferimento rassicurante sulla consueta impronta stilistica di questi ragazzi, propone una composizione a metà tra i Muse e Lady Gaga, sonoramente bocciata e criticata perfino dalla loro fanbase più accanita. Ma i ragazzi avevano in serbo ben più di una sorpresa, e forse si è trattato di un'astuta e ponderata mossa markettara per attirare l'attenzione del pubblico, perchè si sa, bene o male, l'importante è che se ne parli. Ben vengano quindi le prime impressioni negative se poi arriva un album così a obbligarci a ricrederci e a cospargerci il capo di cenere nel constatare la qualità e la oggettiva spettacolarità del prodotto.

 

Fin dalla prima track, "Bastard of Society" l'impressione è quella di poter tirare un sospiro di sollievo, soprattutto quando l'intro è un orecchiabilissimo riff portato in trionfo dai cori potenti e dalla voce strepitosa di Grönwall. Incalzante, coinvolgente, dalle lyrics sapientemente improntate sullo spirito di rivincita. Sicuramente uno dei pezzi che avrà la resa live migliore. Il secondo pezzo "Redifined" è la dimostrazione della grande voglia di reinventarsi che fortunatamente molte band hanno ancora, con un mood decisamente più elettronico e meno scontato, la voce in primo piano su un tappeto di note che sfocia un bellissimo ed elegante solo di Dalone, primo e mai dimenticato chitarrista della band rientrato per colmare il vuoto di Rivers.

 

"Shit City" ha un groove pazzesco che spazia dal blues al rock e lascia intendere la facilità con la quale i cori verranno inneggiati in sede live, con quel "na na na" irriverente. "Best Of The Broken" ha un intro alla Nirvana che lascia perplessi, accompagnato dal battito di mani che sorregge la parte ritmica e i cori senza mai però decollare veramente, forse uno dei pezzi più deboli del disco. Segue quella che a pieni voti viene promossa come ballad dell'anno: la spettacolare "Eye Of The Storm". Che dire di questo gioiello, se non che la pelle d'oca è assicurata, con delle tastiere orgasmiche, un crescendo di una bellezza rara e la voce di Grönwall che mette un'intensità nell'interpretazione da far intrecciare i peli del braccio. Parole e musica si fondono in una spettacolare melodia impossibile da dimenticare, e non bastasse un solo di chitarra di un'eleganza inaudita che rilancia il ritornello elevandolo come merita. Consigliata la visione del videoclip con un pacchetto di Kleenex a portata di mano.

 

"Blind Leads The Blind" è portatrice sana del classico stile H.E.A.T qualora se ne sentisse la mancanza, mentre "We Rule" ha un intro di tastiere che accompagnano per mano l'ascoltatore verso l'interessante evoluzione di questa mid tempo che fatica a decollare ma cattura grazie all'apertura verso l'1.30 che sembra un meraviglioso tributo allo stile Queen, così imprevedibile e piacevolmente pomposo. Un ritornello antemico, che culmina nell'ultima parte del pezzo e denota un'indubitabile attenzione compositiva anche nella scelta del finale "sospeso" col pianoforte. "Do You Want It" spiazza per la quantità di curve a U in cui ci fa sbandare passando da cori irresistibili a strumenti a fiato e una divertente alternanza di momenti soft e hard da far venire il capogiro. Ed eccoci all'ultima track: "Into The Great Unknown", un solenne, cupo, angosciante intro di tastiere e poi di colpo un'esplosione di tutti gli altri strumenti che quasi spaventa in maniera assolutamente eccitante grazie anche al riff dalle atmosfere blues di Dalone e dai ricami di classe coi quali infarcisce la seconda parte del pezzo e dal bellissimo giro di basso. Ottimo il ritornello, così coinvolgente, altro pezzo che insieme alla ballad merita il podio della tracklist, viene da chiedersi come mai non lo abbiano scelto come primo singolo...

 

Per tirare le somme, non il loro migliore album ma sicuramente il più coraggioso, visionario e meritevole di ascolti multipli. Per chi fosse un fan del "live è meglio", vi invitiamo a non mancare il 5 novembre per l''unica data italiana al Legend Club di Milano. 

 





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