DevilDriver
Outlaws ‘Til The End, Vol. 1

2018, Napalm Records
Groove Metal

I DevilDriver questa volta arrivano al galoppo, con la bandana sul viso, il cappello in testa e le colt spianate, ma non tutti i colpi vanno a segno.
Recensione di Matteo Poli - Pubblicata in data: 10/07/18

Mettiamo che siate leader di una delle più amate metal band dell'inizio del 21esimo secolo; avete costruito la vostra reputazione su lavori di tutto rispetto, come "Pray For Villains" e "Last Kind Words", ma da qualche tempo a questa parte, soprattutto dopo un brusco cambio di line-up, faticate a ritrovare l'ispirazione di un tempo. Cosa escogitate? Perché, pensate, non venirsene fuori con un album - no, anzi, una serie di cover album dedicati alle origini del rock, dunque del metal? Questo sembra essere passato più o meno per la testa a Dez Fafara & soci dei DevilDriver, decidendo di dare alle stampe "Outlaws ‘Til The End, Vol. 1", ovvero un disco interamente dedicato all'outlaw country secondo Dez, il quale ci ricorda che proprio dal connubio di questo genere col blues nasce il rock'n'roll. Operazione coraggiosa e rischiosa, perché si costringe un genere formalistico come il metal in territori a lui estranei; ma altresì operazione astuta che, se riesce, può realizzare il miracolo di acquisire al gruppo fan di un genere percepito come molto lontano dal metal, e viceversa.
 
Non è la prima volta che si tenta qualcosa di questo tipo. Il remoto modello è la fortunata versione del brano della tradizione irlandese "Whiskey In The Jar" dei Thin Lizzy alla fine degli anni '70, poi ripresa dai Metallica nei '90. Ma altri tentativi di avvicinamento dei due generi non furono altrettanto fortunati: basti pensare a "Orion" di Ryan Adams, album che si definiva "ispirato al metal ed ai Voivod", ma che fallì nel suo obiettivo, non piacendo né ai metallari, né ai fan di Ryan Adams. Oppure, tra i tentativi di ibridare generi lontani (in questo caso alternative e world music), si pensi all'ambizioso ma tedioso "Anonymous" dei Tomahawk di Mike Patton.

 

"Outlaws ‘Til The End, Vol. 1" punta alto sin dalla lista degli ospiti: molti amici metallers, come i Wednesday 13, Brock Lindow dei 36 Crazyfists, Burton C. Bell dei Fear Factory, Lee Ving dei Fear, Randy Blythe and Mark Morton dei Lamb Of God, ma anche un'icona dell'outlaw country come John Cash Jr, figlio di Johnny Cash, il quale si esibisce alla voce nella opening "Country Heroes", quasi un manifesto dell'intero progetto.  Detto questo, l'album compendia tutti i limiti e le virtù che un'operazione di questo tipo comporta. Spieghiamo: dubitiamo che gli estimatori duri e puri del country apprezzino quello che, alle loro orecchie, suonerà probabilmente - tranne forse per pochi illuminati - come uno stravolgimento sacrilego, una sorta di perversione uditiva. Di contro, chi già conosce ed ama i DevilDriver potrebbe invece non apprezzare la loro personalissima rilettura dei grandi classici del genere. Il problema è che non per tutti i pezzi scelti la formula funziona; lo è per quelli pesantemente rimaneggiati, come "The Man Comes Around", "Dad's Gonna Kill Me", "I'm The Only Hell Mama Ever Rised", ma funziona molto meno nei brani che cercano di mantenere lo scheletro armonico dell'originale, vedi le deludenti "Ghost Rider In The Sky", "Copperhead Road", "A Thousand Miles From Nowhere" o la stessa "Country Heroes".


La domanda è dunque la seguente: se le canzoni più riuscite sono quelle che più tradiscono gli originali, l'operazione ha davvero senso? Non molto, si direbbe. Meglio sarebbe stato forse dedicarvi uno snello EP, piuttosto che un ciclo di album, come sembra promettere il numero progressivo. Qui ci troviamo nella situazione diametralmente opposta a quella degli Steve 'N' Seagull, i quali eseguono in versione country bluegrass classici del rock metal anni '80 - '90: questi centrano l'obiettivo perchè la loro è un'operazione ironica, che sottrae peso, e ha come fine ultimo il puro divertissement. Mentre i DevilDriver appesantiscono brani, se così si può dire, già di per sé gravi; tale rilancio non è però sempre efficace e, in diverse occasioni, la suggestione dell'originale si perde del tutto, senza guadagnare in potenza. Un po' come nella favola di Fedro sul cane che stringe nelle fauci un osso, vede nel fiume il proprio riflesso e, cupido di stringere anche l'osso dell'"altro" cane, perde quello che stringeva. Per cui, nonostante le ottime premesse di un progetto assai seducente sulla carta, il risultato non è all'altezza delle aspettative. Peccato.





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