Pain Of Salvation
Falling Home

2014, InsideOut
Prog Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 10/11/14

Assunto numero uno: poche, pochissime band possiedono un repertorio vasto e vario quanto quello dei Pain Of Salvation. Difficile scorgere nell'intero scenario a cavallo tra il rock e il metal una band capace di saltare da abbozzi nu a pluralità vocali di cori ora western ora gospel, dall'hard rock più grezzo al più virtuoso tecnicismo del prog, dalla rabbia degli scream alla dolcezza di delicati sussurri. Un percorso che ha mosso i suoi primi passi nell'effervescente barocchismo del metallico "Entropia", evolvendosi nel grandeur del concept multidisciplinare di "BE", per cominciare infine a spogliarsi d'ogni sorta d'ammennicolo e rituffarsi in strada nella polverosa essenzialità dei "Road Salt". "Falling Home" si propone come completamento di un percorso di messa a nudo della propria anima, della reinterpretazione dei propri cavalli di battaglia per mezzo di minimali, acustiche chiavi di lettura.

Assunto numero due: poche, pochissime band possiedono un'inclinazione per l'esibizione live e acustica tanto genuina e prolifica quanto quella del collettivo capitanato da Daniel Gildenlöw (oggi affiancato dall'ormai fedelissimo Leo Margarit alla batteria, dal redivivo Gustaf Hielm al basso, da Daniel Karlsson promosso alle tastiere e dalla giovane e glam new entry Ragnar Zsolberg, seconda voce e secondo chitarrista). "Falling Home" si inserisce nella scia del mastodontico "BE - Original Stage Production" e del più affine "12:5", primo -riuscitissimo- tentativo di colorarsi d'acustico e sperimentare improbabili variazioni sul tema.

Partendo da tali presupposti parrebbe dunque quasi scontato che "Falling Home" atterrasse nei territori dell'assoluta impeccabilità, mostrandosi come inappuntabile conferma di un cangiante e adattabile estro creativo. Come fin troppo spesso capita, però, a dispetto delle grandi aspettative attorno ad essa la nuova opera di Gildenlöw e soci finisce per arenarsi irrimediabilmente e con clamorosa rapidità, incespicando in una tracklist mal ragionata, in forzature questa volta davvero fuori luogo, ma anche -ed è cosa molto peggiore- in svogliate quanto inutili riesecuzioni prive della minima rielaborazione. Perché, pur ammantata di swing (deviazione presente anche nella spassosa cover di "Holy Diver"), "Stress" rimane una confusa e disarticolata baraonda come lo era ai tempi degli esordi; perché "Linoleum" si annulla in mollezze che non dovrebbero competerle e vede svilite dalla voce di Zsolberg (assolutamente insufficiente, specialmente se confrontata all'inossidabile magistralità del compare di microfono) i suoi momenti più carichi di pathos, e "Spitfall" trasforma l'originaria strofa rappata in un noioso, interminabile spoken word (prima di fondere la coda della canzone in qualcosa che ricorda "Road Salt"); perché "To The Shoreline" e "1979" hanno ancora la forza di commuovere, ma sono pur sempre edizioni ridotte delle già praticamente acustiche versioni studio.

In tale sconfortante scenario (dove a far da assoluto highlight è una stupenda cover di "Perfect Day" del mai troppo compianto Lou Reed) è d'obbligo una doverosa menzione per la title track e unico inedito: una delicata storia d'amore tratteggiata da morbidi giri d'accordi di doppia acustica, un suadente nascondersi sullo sfondo e ritornare in primo piano della splendida, caldissima, appena graffiata voce di Gildenlöw. Forse una carezzevole promessa e l'indizio di una futura prosecuzione verso lidi ancora più morbidi di quelli già esplorati? Forse le ultime note di una fase artistica che dura ormai da un quinquennio? In ogni caso, troppo, troppo poco per chi è stato in trepidante e smaniosa attesa dai tempi di "Road Salt Two".



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