Inutile negarlo: ogni disco degli Agalloch è a suo modo un capolavoro di immensa classe. A questo punto, data la qualità eccelsa dei tre lavori sinora partoriti dal gruppo, solo le emozioni individuali possono portare a preferire un album piuttosto che un altro.
Di base i Nostri riportano, tra le loro influenze, doom, black, gothic metal, post rock e folk (quello apocalittico, tipico di certi Death in June, ma non solo); tutti questi elementi vengono dosati sapientemente dai tre musicisti, che di volta in volta si dedicano a viaggi sempre diversi, ora più ferali e tirati, ora più gelidi e riflessivi. “The Mantle”, secondo LP degli americani (datato 2002) è tra i tre quello più atmosferico, più incline alle sezioni acustiche, pur non disdegnando accelerazioni e partiture elettriche di grande effetto. La voce, quella sì, è rimasta la stessa dal precedente “Pale Folklore”: John Haughm alterna con disinvoltura parti in scream (sussurrato quasi), a sezioni clean, creando una commistione di grande effetto, un sibilo lontano e freddo come una sferzata di vento nordico. La struttura dei pezzi è in generale ancora molto derivativa dal post rock: si prenda ad esempio la strumentale “The Hawthorne Passage”, un continuo alternarsi di riff, un crescendo spiraliforme che culmina in una seconda parte che in un paio di circostanze mi ha ricordato addirittura gli Explosions In The Sky.
Per un disco del genere (come del resto per gli altri due firmati Agalloch) non ha senso descrivere le tracce una per una. “The Mantle” va ascoltato tutto d’un fiato, va assimilato lentamente tramite ripetuti ascolti, perché solo così può rilasciare tutta la sua magia e può conquistare l’ascoltatore.
In questo album è stato dato ampio spazio ai pezzi strumentali. E’ questa la natura dell’iniziale “A Celebration For The Death Of Man…,” di “Odal”, di “The Lodge” e della già citata “The Hawthorne Passage”. Tra queste mi sento di escludere da una mia personalissima tracklist solo “The Lodge” (qui si va su un piano prettamente personale, si va a toccare lo spettro emotivo che un brano può o non può suggerire, ma la traccia si mantiene comunque su standard qualitativi alti).
Per quanto riguarda i pezzi “canonici”, non ci sono falle o punti deboli: “In The Shadow Of Our Pale Companion”, “I am the Wodden Door”, “You Were But A Ghost In My Arms”, “…And The Great Cold Death Of The Earth” e la conclusiva “A Desolation Song” sono tutti pezzi da novanta, gioielli dal fascino indescrivibile. Personalmente parlando, del disco adoro sempre sottolineare la tripletta finale. “The Hawthorne Passage” apre la strada con la bellissima citazione in chiusura (tratta dal film di Jodorowsky “Fando Y Lis” ) a “…And The Great Cold Death Of The Earth”, la quale poi confluisce nell’acustica “A Desolation Song”, di una malinconia sommessa e disarmante. Solo la combinazione di questi tre pezzi penso potrebbe bastare a convincere chiunque sull’altissima qualità del disco.
Intriso fino al midollo in una sofferente atmosfera malinconica e triste, l’album prosegue su certe coordinate tracciate da “Pale Folklore”, scarnificandole e rendendole più minimali, ma paradossalmente anche più monumentali e incisive. Con il successivo “Ashes Against The Grain” si tornerà invece a sonorità più elettriche, ma questo è un altro discorso. E un altro viaggio.