Nonostante condividano con gli Opeth il titolo del loro nuovo album, non esiste alcun nesso sostanziale che accomuni i Distant ai celebri colleghi scandinavi. Il gruppo slovacco/olandese, infatti, prosegue il proprio racconto horror/sci-fi in virtù di un terzo album, “Heritage”, che vede ancora come attore principale Tyrant, personaggio già presente negli scorsi “Tyrannotophia” (2019) e “Aeons Of Oblivion” (2021). Una storia capace anche di travalicare l’ambito sonoro, dal momento che, contestualmente al secondo lavoro in studio, il combo pubblicò il libro “The Rise Of Tyrannotophia”, scritto a quattro mani e in inglese dal cantante Alan Grnja e dal bassista Elmer Maurits: testo trascurabile sia per correttezza linguistica sia per valore letterario, ma comunque testimonianza di una lodevole aspirazione artistica a trecentosessanta gradi. Pellicole quali “Predator” ed “Event Horizon”, la versione anime del videogioco “Devil May Cry” e il leggendario sparatutto “Doom” rappresentano le fonti cardinali di un universo immaginifico violento e malsano, che sembra funzionare meglio in musica e meno su carta, considerate talune crepe riscontrabili a livello di intreccio.
Una band che definì sè medesima di matrice downtempo/deathcore, sorbendo, ab origine, l’influenza del discusso “The Cleansig” (2008) dei Suicide Silence, oggi sembra aver raggiunto una certa indipendenza autoriale, benché l’atavico retaggio rimanga impresso a fondo nelle corde del songwriting. Un’autonomia stilistica che appare manifesta nelle modalità interpretative del genere, con un lotto di brani nei quali la ferocia sonora di base viene prima scomposta dall’elettronica e poi da essa distillata tra le nebbie di una coltre atmosferica insalubre e carica di minaccia, dove anche i breakdown si sgretolano lasciando rovine più imponenti della loro struttura originaria (“The Gnostic Uprising”).
La sensazione di disagio psicofisico che attraversa la mente del protagonista, costretto ad affrontare situazioni e creature d’ogni risma, percorre l’intero LP, trovando una significativa estrinsecazione già all’apertura delle danze. L’Igorrr trangugiato dall’industrial di “Acid Reign” e il caterpillar dal cervello cibernetico “Paradigm Shift”, brano che potrebbe fungere da bonus track di una riedizione di “With No Human Intervention” (2003) degli Aborym, rappresentano l’abbrivio claustrofobico di una scaletta che riesce ad andare oltre i cliché del low and slow, soggiacendo a micro-variazioni interne di enorme peso specifico.
I riffoni tritafrattaglie di Vladimir Golic e Nouri Yetgin si alternano – e talvolta si sovrappongono – a eterei balenii di foggia sintetica, mentre la dinamica perfomance dietro le pelli di Jan Mato, che lavora con piatti, blastbeat e pattern di grancassa senza concedere punti di riferimento telefonati, conduce i pezzi in quella terra di mezzo fra brutal, slam e black così opima di cadenze mutaforma da accogliere persino simulacri ritmici hip hop (“Born Of Blood”). L’impeccabile produzione di Howard Fang (Within Destruction) e le coloriture mainstream degli arrangiamenti provvedono a rendere accattivanti le stratificazioni del disco, un po’ sul modello degli ultimi Lorna Shore, il cui singer Will Ramos, non a caso, interviene nella title track, duettando con un Grnja che, in quanto a versatilità vocale, conosce davvero pochi eguali nel mondo extreme. Le stesse “Orphan Of Blight” e “Plaguebreeder” occhieggiano non poco alla visionaria vena sinfonica degli statunitensi.
La saturazione auricolare corre leggera, dunque, sui binari del groove, dall’allure Alkaloid di “The Grief Manifest” all’orecchiabilità assassina di “Exofilth”, dai Dimmu Borgir gravati di pig squeal distorto e mattoni electro di “A Sentence To Suffer”, alle contorsioni rugginose di “Human Scum”, con l’extra di una “Argent Justice” tesa a rappresentare la “We Are The World” della galassia core, vista la partecipazione al microfono di ben sedici cantanti appartenenti all’area suddetta. Pezzo all star, a dire il vero, frenetico e poco convincente, unica reale pecca di un “Heritage” dall’esito forse superiore rispetto alle previsioni, che mostra dei Distant ambiziosi e in decisa crescita, benché non alieni da qualche impaccio nel maneggiare un patchwork a tratti sin troppo ricco di filoni narrativi. A ogni modo, melius est abundare quam deficere.
Tracklist
01. Acid Reign
02. Paradigm Shift
03. Born Of Blood
04. The Grief Manifest
05. Exofilth
06. Argent Justice
07. The Gnostic Uprising
08. A Sentence To Suffer
09. Human Scum
10. Heritage
11. Orphan Of Blight
12. Plaguebreeder