A otto anni dal meraviglioso “A Umbra Omega”, i Dødheimsgard tornano a bussare alle porte dell’avantgarde più suggestivo con un lavoro intriso di tematiche complesse quale “Black Medium Current”, un album, come da consuetudine, curatissimo in ogni minimo dettaglio e pubblicato ancora una volta dalla sempre encomiabile Peaceville Records. Ne abbiamo ampiamente parlato con la mente assoluta della band, Vicotnik, pseudonimo di Yusaf Parvez, artista capace di spaziare in ambiti che travalicano l’ambito musicale, toccando questioni inerenti il pensiero umano e le sue varie sfaccettature. Un viaggio allo stesso tempo mistico e filosofico, tra influenze indiane e determinismo, per un gruppo e un uomo capaci di imprimere una profonda spaccatura nel black metal degli anni ’90 e che oggi non sembrano certo intenzionati a deporre le armi. E con i Ved Buens Ende pronti a riemergere dalle acque…

Ciao Yusaf e benvenuto su SpazioRock. Come stai?

Bene e felice di parlare con te.

Ricorre un numero preciso nella discografia dei Dødheimsgard dopo il vostro debutto “Kronet Til Konge”: otto anni, infatti, separano le uscite di ciascuna release, da “666 International” a “Supervillain Outcast”, da “A Umbra Omega” al nuovo “Black Medium Current”. Si tratta di una coincidenza esoterica o di un semplice caso?

Sai, è stata principalmente una coincidenza e ovviamente non ho mai pianificato di aspettare otto anni tra un album e l’altro, ma, chi conosce la band, sa che la formazione è cambiata dopo ogni disco. Quindi ci vuole del tempo. E chiunque leggerà questa intervista, dovrebbe anche sapere che ogni lavoro dei Dødheimsgard dal 1997 in poi è diverso, nel senso che non è mai una continuazione di quello precedente. È sempre qualcosa di nuovo. Il che significa che, dopo aver registrato un full-length, ho sempre bisogno di un po’ di tempo per riposare e riflettere, periodo nel quale non scrivo né musica, né testi. Torno nella mia bolla di pensiero, chiedendomi cosa sono riuscito a esprimere nel corso degli anni e cosa ho ancora necessità di comunicare. Se capisco di avere nuove cose da dire, nuove idee da evocare, allora devo anche comprendere quali sono queste idee. E quando si cristallizzano nel mio cervello, devo inseguirle e trovarle. Tutte queste piccole cose richiedono molto per maturare. E quando sembra che riesca ad afferrare qualcosa che reputo buono e giusto, inizio a comporre tante canzoni, le riascolto continuamente e, nel caso non fossero di mio gradimento, le butto via e ricomincio, sai? Quindi, in questo senso, il processo è parecchio lungo. Cerco di creare qualcosa di inedito, almeno fino a un certo punto; non voglio che gli album siano troppo simili gli uni agli altri, perché nella mia mente, qualora realizzassi dei platter in fotocopia, sminuirei me stesso. In questo modo ogni LP ha il proprio posto solenne nella nostra discografia, diventa fondamentalmente un monumento da visitare e non da abbattere per far posto a un suo duplicato. Poi c’è da dire che sono anche attivo nel circuito live, suono in tre gruppi e tutti i membri della band sono impegnati dal vivo. A ciò aggiungiamo che sono un uomo adulto, ho dei figli, una famiglia, nulla è gratis, ma ogni cosa diventa lavoro, lavoro e ancora lavoro. È facile spiegare, dunque, un’assenza di otto anni.

“Black Medium Current” ha un titolo dal fortissimo sapore filosofico e non è di semplice decifrazione. Vogliamo spiegarne il significato, che penso poi si estenda al carattere dell’intero platter?

Sì, decisamente. Medium, ovvero mezzo, è da intendersi nel senso astratto del termine. Però è meglio che inizi dal principio. Abbiamo tutte queste cose astratte che l’uomo si porta dietro, a partire dalle emozioni negative. Solitudine, tristezza, nostalgia, ma anche disabilità e problemi mentali, una specie di oscurità psicologica che ci invade. Ogni pensiero e condizione di tale tipologia si trovano in luoghi esterni al corpo, non esistono solo nella nostra testa, esistono da qualche parte nel cosmo, all’interno di una corrente nera punto d’origine dei vari stati psichici summenzionati. Ciò si ispira parzialmente al mito della caverna della filosofia platonica; anche le idee hanno un’origine che non sono un’idea, esse non sono legate al cervello, visto che quest’ultimo è soltanto un processore attraverso cui riflettere e analizzare la realtà. Le idee, in verità, esistono da qualche altra parte. Mettiamola così, dunque: l’album è il mezzo, il nero è la connotazione delle emozioni più cupe e la corrente è il flusso dell’oceano che colpisce le nostre menti.

L’artwork, opera di Łukasz Jaszak, è molto curato e ricorda tanto la pittura di Vasilij Vasil’evič Kandinskij quanto la storica copertina di “The Dark Side Of The Moon”. Siamo di fronte a un manuale interpretativo del disco e non soltanto a una semplice immagine?

Certo. Penso che prima di tutto l’artwork debba essere in qualche modo connesso al contenuto dei testi e alla musica, giusto? Quindi era necessario che ci fosse sulla cover una specie di immagine tridimensionale, che abbracciasse idealmente le liriche, i brani, le foto della band. Tutto deve combaciare perfettamente. Questo rende anche più facile per l’ascoltatore ottenere un accesso diretto all’opera, perché avrà già tutte le chiavi per entrare in essa e potrà trasformarsi in consumatore. E ho capito che volevo questa particolare copertina da molto tempo. Ci ho pensato a lungo, lasciandomi influenzare dalla logica classica, dalla filosofia di Dan Dennett, dal determinismo e cose del genere. Volevo, dunque, una sorta di dipinto dualistico che in un certo senso riguardasse da un lato le proprietà fisiche e materiali e dall’altro le proprietà mentali. Hai le linee spettrali, che sono fondamentalmente una rappresentazione del mondo fisico, il mondo che si manifesta attraverso atomi e quark, e poi hai lo spazio vuoto, che in fondo costituisce il potenziale di ciò che può essere realizzato. Sai, quello spazio nero è come la mente, può essere riempito con qualsiasi nuova cosa e ogni giorno può essere modificato. Le proprietà psichiche sono molto importanti, ci servono per rispondere a domande del tipo: “Abbiamo corpi o siamo dei corpi?”. Sono il modo in cui ci identifichiamo come esseri umani rispetto al mondo. A noi uomini piace pensare per narrazioni. Ci piace pensare per storie, mentre non è necessariamente vero che ci sia una storia nel mondo, ma noi continuiamo a scendere a compromessi con esso. Sbagliando, certo, eppure intendiamo così le cose.

Da quello che dici, potremmo definirlo un concept album, anche se piuttosto singolare?

Vagamente. Non è un concept su un marinaio che, navigando, torna indietro nel tempo, magari al 1750. È più un concept filosofico, nel senso che si occupa di ogni tipo di dualismo, come il problema mente-corpo o la questione del contrasto tra materiale e – in mancanza di una parola migliore – spirituale. Non mi piace quest’ultimo termine, in realtà lo odio (ride, ndr). Tutto viene elaborato attraverso una mente che pensa, ma non offro alcuna risposta definitiva. Dico soltanto come mi sento e su cosa sto riflettendo. E, in un certo senso, voglio che i vari brani siano una narrazione di valore universale, perché esistono alcuni aspetti di noi esseri umani che ci accomunano: la nascita, l’essere nutriti da persone adulte, avere un padre e una madre, andare all’asilo, frequentare la scuola. Ma, quando ci troviamo dentro queste esperienze, non ci rendiamo conto che esse si sgretoleranno soltanto in pochi anni. Una volta usciti dall’infanzia e dall’adolescenza, si prenderanno determinate scelte e poi, all’improvviso, si dovranno fare i conti con una realtà nuova di zecca, ricostruita. Un bel problema!

Nel nuovo album sei anche in veste di produttore, anche se in maniera piuttosto diversa rispetto allo scorso “A Umbra Omega”. Mi sbaglio?

Esatto. In “Black Medium Current”, la parola produttore si riferisce soltanto al modo in cui ho presentato le mie idee. Non ne sono stato l’ingegnere, né ero l’uomo dietro la console, ero interessato piuttosto a dare delle direttive da seguire sul suono e tutto il resto. Otto anni fa, invece, in “A Umbra Omega”, ho fatto tutto io. Questa volta non volevo stare anche al mixer, perché sentivo ancora la fatica di occuparmi di ogni cosa. Desideravo esclusivamente dedicarmi alla musica e ai testi, spiegando ai tecnici come l’album avrebbe dovuto suonare, una specie di pre-produzione, anche se non in senso stretto. Certo, devi essere lì quasi tutto il tempo ad assicurarti che il progetto vada avanti secondo i tuoi desideri e che ciascun elemento si incastri al meglio, ma è stato molto più facile e rilassante rispetto allo scorso disco.

“Black Medium Current” è il secondo lavoro nel quale non appare Aldrahn al microfono, anche se in “Supervillain Outcast” la sua voce faceva capolino in “Foe X Foe” e “Ghostforce Soul Constrictor”. Quali sono i motivi dell’assenza di un singer così importante per i Dødheimsgard?

Nello scorso “A Umbra Omega”, Aldrahn arrivò molto tardi, quando la musica era già stata registrata. Le uniche cose che ancora mancavano erano le parti vocali. Sai, avevo iniziato a provare io stesso sperimentando con la voce, visto che all’epoca non avevamo cantanti. Io e Aldrahn abbiamo ricominciato a parlare, lui ha ascoltato le canzoni e le ha davvero amate. E ho pensato: “Perché non riprovare con la formazione originale?”. Dopo qualche riflessione, e a sua esplicita richiesta, ho detto: “Ma  sì, perché no?”. E così abbiamo inciso le parti vocali e siamo andati avanti insieme in tour, ha partecipato a tutti i concerti, ma le cose non stavano funzionando per nulla. Credo che la line-up in quel momento non fosse la più adatta e coesa, come se tutti i suoi membri fossero una specie di isola a sé stante. Non c’era alcun tipo di senso di comunità nella band. Quindi per me è stato davvero importante risolvere questi problemi, perché deve esserci soddisfazione nel suonare insieme, altrimenti è tutto inutile. A un certo punto, forse nel 2016, eravamo tutti piuttosto infelici. Allora ci siamo seduti, abbiamo discusso e poi abbiamo deciso di prendere strade diverse. Anche qui hanno vinto le leggi della causalità. Se Aldrahn fosse stato nella band sin dal 1994 e avesse cantato su ogni disco, probabilmente non ci saremmo trovati nella situazione che ti ho detto. Ma dal momento che storicamente abbiamo avuto un altro tipo di traiettoria e altri tipi di risposte, siamo finiti dove siamo finiti. E, considerato che ero l’unico musicista che non aveva mai abbandonato la nave dei Dødheimsgard e l’unico songwriter del gruppo dal 1997 in avanti, la sola scelta sensata era separarsi.

E come ti sei sentito nelle vesti di unico singer dei Dødheimsgard per la prima volta?

È stato importante cantare in tutto l’album e non volevo essere un’imitazione di me stesso. Desideravo essere autentico e credibile, non interessandomi della tecnica o di cose del genere; fondamentale sarebbe stato trasmettere il messaggio contenuto nelle parole senza che esse suonassero forzate. E penso sia andata bene. Nelle mie prime due band, che non hanno mai pubblicato dischi, ero al microfono, per questo è stato come tornare al ’91 o al ‘92. Quindi era qualcosa che mi era familiare, ma non ho mai avuto la possibilità di esplorare davvero la mia voce nei Dødheimsgard rispetto ai Ved Buens Ende e ai Dold Vorde Ens Navn.

A livello di scrittura dei brani, invece, si nota una maggiore fluidità complessiva, con meno strappi e spigolosità rispetto allo scorso lavoro. Anche il manto avviluppante delle melodie contribuisce a tale scorrevolezza, non credi?

Sai, otto anni fa sapevo che la canzone “Architect Of Darkness”, contenuta nello scorso album, rappresentava una specie di percorso che volevo esplorare ulteriormente. Quindi sono partito da lì. E ho anche sentito che avevo due scelte, nel senso che potevo provare ad andare oltre “A Umbra Omega” o scrivere qualcosa di più caotico e complesso. Ho deciso di prendere in prestito soltanto alcuni aspetti dell’album del 2015 e per il resto smontare tutto, cercando di tornare ad alcuni elementi essenziali del black metal, a dei riff che rimanda direttamente ai primi anni ’90, anche se presentati in un modo molto diverso, dal momento che allora ero molto giovane e non avevo la medesima esperienza di oggi. E poi ci sono melodie malinconiche che attraversano il nucleo della maggior parte delle canzoni, conferendo fluidità all’album, proprio come hai detto tu. Considerando che questa volta la narrazione lirica è un po’ più lineare, era importante che le canzoni conducessero l’ascoltatore e noi stessi da qualche parte dal punto di vista emotivo.

In questo senso, l’utilizzo del pianoforte, che avete iniziato a impiegare sin dall’EP “Satanic Art”, ha un ruolo fondamentale …

Sì, iniziammo con il pianoforte già su “Satanic Art” e l’abbiamo mantenuto in tutti gli album successivi, benché in “Supervillain Outcast” avesse un ruolo diverso. Su “A Umbra Omega” il piano è presente in modo piuttosto rilevante in molti brani, ma a memoria non ricordo una sua presenza solista in qualcuno di essi come nel caso di “Voyager”. Nell’album attuale questo strumento è fondamentale, un vero e proprio pilastro, conferisce drammaticità, pathos ed è adattissimo a trasmettere malinconia. In tal senso, forse “Black Medium Current” è più legato a “666 – International” che allo scorso lavoro, ma, per le parti black metal, i legami sono con “Monumental Possession”, nel quale riciclammo i riferimenti minimi alla second wave. Essendo stato sempre presente nella band, è naturale trovare dei collegamenti con il passato. Pensa anche al suono delle chitarre, di fatto ne scompongo e ricompongo le tessiture, escono fuori cose nuove, ma alla fine puoi sempre sentire che appartengono ai Dødheimsgard.

Passiamo ai brani più significativi. Sappiamo che un LP dei Dødheimsgard non si presta a un rapido assorbimento, bensì è necessario ascoltarlo più volte per carpirne le sottigliezze e le tante sfumature. Una parte di “Interstellar Nexus”, però, con quelle vibrazioni elettroniche che fanno pensare ai migliori Depeche Mode, sembra contraddire la mia affermazione precedente. Cosa puoi dirci di questo spirito anni ’80 che aleggia nel brano?

Sai, sono sempre stato un fanatico della musica pop degli anni ’80 e, in generale, della musica di quel decennio. Un po’ come la popular music dei ’70, anch’essa era eccezionale. Poi, è vero, durante i ’90 c’era ancora della musica fantastica, ma stava già iniziando a diventare come l’industria pornografica o automobilistica, un prodotto in serie di natura pubblicitaria, sin troppo commerciale. Questo perché volevano venderti qualcosa, carpire la tua attenzione per uno scopo puramente economico, tanto che nei 2000 la musica è divenuta sempre meno una questione di abilità artistica e molto più una faccenda di marketing. Ma, per tornare alla tua domanda, è stato davvero naturale inserire le vibrazioni che hai detto. Sai, ho scritto tonnellate di musica come questa, tuttavia non l’ho mai pubblicata. E quando sono arrivato a un particolare punto lirico del brano, ne ho esplorato le sfaccettature e ho pensato che tali suoni si adattassero meglio di quanto avrebbero potuto in un album precedente.

Un pezzo come “Det Tomme Kalde Morke” sembra unire l’anima del black metal primigenio con suggestioni provenienti dalla kosmische musik dei Tangerine Dream. La colonna sonora perfetta per sprofondare nell’oscurità più profonda dello spazio?

Visione interessante, ma non ho mai inteso la canzone totalmente in questo modo, almeno dal punto di vista prettamente musicale. Credo che per me sia stato un brano ispirato specialmente al black metal dei primi tempi. Mi piace molto, invece, la tua interpretazione concettuale del pezzo, perché in effetti esso parla della caduta in una sorta di buio profondo. Sai, è come essere privati della nostra stessa identità. Tutti gli esseri umani hanno una specie di interruttore nella loro testa che si chiama autocommiserazione. Ti rende una star nello spettacolo che si tiene dentro la tua testa. La canzone parla di come abbattere questo senso di vittimismo e comprendere cosa accade davvero nei momenti in cui scopri di essere un bugiardo o, soprattutto, che sei un fallito. Ma niente espressioni del tipo: “Oh, povero me!”. I fallimenti che sperimentiamo sono molto importanti per noi, sono vere e proprie lezioni di vita. Il nostro senso di sicurezza e il nostro senso di identità possono sgretolarsi in qualsiasi momento, e passiamo la vita ad aver paura di queste cose. “Det Tomme Kalde Morke” parla di abbracciare il fatto che la tua personale realtà possa disfarsi improvvisamente. Quindi sii preparato. Ma la traccia tratta anche di un uomo che si trova nell’oscurità più totale perché si è fatto a pezzi da solo.

“Abyss Perihelion Transit”, oltre a rappresentare il brano di maggior durata della tracklist, è anche quello più evocativo, con le sue influenze orientali deputate a trasportarci in eremi remoti, dove meditare e curare la nostra anima.  Un viaggio mistico e non solo una canzone in senso stretto?

Si, è decisamente il pezzo più suggestivo del lotto. L’ho scritto pensando alle tante persone che ho avuto nella mia vita, persone che sono morte e che non sono più qui. Parecchi dei miei amici del passato sono deceduti in modo molto violento, suicidandosi o per overdose, ma ci sono state, ovviamente, anche delle morti naturali. In “Abyss Perihelion Transit” cerco di evocarli quasi traendoli fuori dal luogo dove sono ora; non hanno più delle proprietà fisiche, ma sono delle proiezioni mentali che in un certo senso le rendono ancora vive. In questa canzone è come se io comunicassi con me stesso e, attraverso la comunicazione con me stesso, sto anche comunicando con il ricordo di quella persona o con l’idea che ho di essa, capisci? A pensarci bene, non so se sia effettivamente una canzone, è più uno stato d’animo. E i tuoi riferimenti alla cultura orientale sono giusti e si collegano a ciò di cui parlo nel brano. Sai, credo che per tutta la mia carriera nel metal, io sia stato più concentrato sul lato occidentale delle cose. Quindi ho sempre avuto il desiderio di inserire delle influenze indiane, perché esse fanno parte della mia identità e, inoltre, si connettono molto bene con il concetto filosofico della reincarnazione che si trova nell’induismo.

“Requiem Aeternum” trasmette un senso di pace e di armonia perpetue, ma forse non simboleggia anche una rinascita, tanto fisica quanto interiore?

Riguarda la morte di ciascuno di noi e il significato del cessare di esistere. Quindi è un pezzo triste, è un brano che dice addio a qualcosa di familiare. Tuttavia, ciò può anche essere interpretato come una rinascita, perché non si tratta necessariamente di una morte fisica. Dipende da come interpreti il contesto. Ma è comunque una canzone funebre. Sai, seppellisci qualcosa, forse è una sepoltura permanente, forse la seppellisci per risorgere. Questo, però, dipende dalla sensibilità di ciascun ascoltatore, e da quali sentimenti o suggestioni è travolto durante il procedere della traccia.

Yousaf, sei attivo nei Dold Vorde Ens Navn, ma soprattutto hai ricominciato da un po’ di tempo a suonare con i Ved Buens Ende. Ci sarà mai un successore di “Written In Waters”? Sarebbe un sogno realizzato per molti …

Si, anche per me onestamente. Questo è uno dei miei più grandi desideri come artista e performer. E anche per dimostrare di essere ancora in grado di realizzare un secondo album sotto quel moniker. Ma non deve essere soltanto un disco con il logo dei Ved Buens Ende. Perché è inutile, sai? Bisogna che esso sia connesso con la band originaria e profondamente radicato nella sua specificità di un tempo. Quindi vedremo se è qualcosa che possiamo ancora fare. Non lo sappiamo ancora. Per me questo è un punto importante, perché, ovviamente, io e Carl-Michael Eide potremmo comunque realizzare il successore di “Written In Waters”. Non c’è problema. Deve, però, essere anche autentico. A tal proposito, abbiamo preso una decisione davvero intelligente. Abbiamo ricominciato nel 2018 facendo soltanto concerti; in questo modo ti familiarizzi con le vecchie canzoni, visto che le suoni di nuovo dopo più o meno venticinque anni. Cerchi di rientrare nella vecchia mentalità. Stai viaggiando all’interno della musica, ti stai riconnettendo con il passato. Ora siamo nella fase in cui stiamo scrivendo nuova musica e probabilmente abbiamo già il disco, anche se frantumato in piccoli pezzi. Si tratta di metterlo insieme, ascoltarlo e vedere se regala le stesse atmosfere di una volta.

E per un full-length black metal vecchio stile? Ci sono dei margini di manovra in ottica Dødheimsgard?

Allora, se uscisse un lavoro da me non considerato un come back al black metal dei ‘90, qualcuno di sicuro direbbe: “I Dødheimsgard ritornano alle origini!”. Al contrario, qualora realizzassi un disco per me vecchio stile, forse molti ascoltatori esclamerebbero: “È avantgarde, è fottutamente avantgarde!”. Quindi cosa dire, non si sa mai. Ma proprio in questo periodo sono impegnato in un progetto parallelo che si chiama Doedsmaghird, fondamentalmente uno spin-off dei Dødheimsgard. Con loro si torna indietro nel 1997, sai? L’EP “Satanic Art” venne rilasciato nel 1998, mentre nel 1999 è stata la volta di “666 International”. Quindi l’idea è la seguente: come avrebbe suonato potenzialmente un album che fosse uscito nel 1997? Ebbene, forse sarà questo il disco di cui parli.

I Dødheimsgard sono una band avantgarde, difficile da incasellare e pronta sempre a mettersi in discussione. Ma oggi, rispetto a degli anni ’90 in cui tutto era ancora da scrivere, risulta più complicato fare musica innovativa e originale?

Se non hai niente, creare qualcosa è facile, ma anche fare due album diversi tra loro lo è; il problema è quando i dischi diventano tre, quattro, cinque e via dicendo, soprattutto oggi, visto che il livello generale si è alzato. Ma penso che ci ancora sia spazio per l’originalità, anzi, probabilmente ci sono più lavori originali oggi che negli anni ‘90, dal momento che ora le band sono più eclettiche e creative. È il contesto che è cambiato e, di conseguenza, anche il modo di giudicare un platter. Potrai scrivere la musica migliore possibile, eppure avrà un impatto minore rispetto al passato, sia a causa dell’eccessiva saturazione del mercato sia per il modo “libero” di usufruire delle canzoni. Questo, però, non vuol dire che nella musica non sia in atto una rivoluzione, magari proprio ora mentre ne parliamo; di sicuro non nel metal, visto che quelli che lo suonano sono tutte vecchie anticaglie, completamente disconnesse da ciò che accade altrove, capisci? Le giovani generazioni sono di fronte a nuovi problemi e lottano per le proprie cose. Se guardi la scena politica, cosa abbiamo oggigiorno? Un sacco di contese, dalle polarizzazioni tra destra e sinistra alle questioni dei diritti della comunità LGBTQIA+. E da queste controversie nasce sempre l’arte, che si avvale oltretutto di nuovi mezzi. Non sappiamo davvero quale e come sarà la prossima grande rivoluzione che cambierà il volto del mondo e dell’arte.

È stato pianificato un tour a supporto di “Black Medium Current”? Magari per il prossimo anno?

Quando pubblichi un album ad aprile è difficile pianificare un tour, perché tutti i festival sono già stati prenotati nel 2022. Quindi penso che il grande anno per noi sarà il 2024, ma comunque in questa seconda parte del 2023 parteciperemo a dieci, forse quindici festival e cose del genere. Saremo in Australia e in Messico, due posti in cui non ero mai stato prima, quindi non vedo l’ora.

Grazie per il tuo tempo, Yousaf. Vorresti lasciare un messaggio ai fan italiani dei Dødheimsgard e ai lettori di SpazioRock?

Sì, certo. Ciao, Italia. Grazie mille per il supporto. So che alcuni di voi, ragazzi e ragazze, seguite la band da trent’anni. Benedico le vostre anime. Una domanda prima di chiudere: ti è piaciuto il nuovo album?

Il mio preferito resta “666 International”, ma “Black Medium Current” lo considero pari agli altri album della discografia dei Dødheimsgard.

Grazie mille. E spero di vederti in Italia a un nostro show!

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