Immaginate una band di ragazzi poco più che 20enni che dopo la consueta gavetta – durata poco, a dire il vero – al primo tentativo pubblica un album divenuto leggendario e si ritrova a suonare in tutto il mondo. Certo, con i dovuti limiti, non si tratta di una storia così tanto unica e di casi nel corso dei decenni ne abbiamo visti diversi. Quello che forse è fuori dal comune è vedere la suddetta band riprovarci dopo poco e raggiungere – quasi – gli stessi risultati. E andare avanti così, macinando record su record, facendo numeri spaventosi anche ora che la band in questione è ferma da sei anni per il motivo che tutti conosciamo.

È facile nel 2023 riconoscere la grandezza dei Linkin Park e l’impatto enorme (ma ancora non quantificabile) che hanno avuto sul panorama musicale mondiale, ma tra il 2000 e il 2003, dopo l’esplosione di “Hybrid Theory” la lista di detrattori convinti che il sestetto non sarebbe mai andato oltre il “fortunato” successo dell’esordio era crescente, esattamente quanto la loro popolarità. Effettivamente cosa ci faceva in cima alle classifiche rock e metal (e non solo) una band capitanata da un nerd che aveva passato l’infanzia tra pianoforte, jazz e arte e un ragazzo problematico che in 25 anni di vita ne aveva già passate quante ne sarebbero bastate per tre vite? Una band passata in pochi mesi dalle porte chiuse in faccia alla gente impazzita che scavalca le reti per assistere ad un loro concerto in un parcheggio.

La problematica su cosa fare e come andare avanti in una situazione di equilibrio precario come questa è storia nota e forse è anche per questo che Mike Shinoda non ha praticamente mai smesso di scrivere, chiedendosi allo stesso tempo quanto senso avesse proporre un secondo album che fosse una copia sbiadita di un miracolo discografico che nel frattempo stava abbattendo ogni muro. La verità è che probabilmente non esiste una soluzione giusta, perché, allo stesso modo, cambiare completamente registro così presto – oltre a dover essere nelle corde della band – può tranquillamente essere un buco nell’acqua. E, ancora oggi, ascoltando “Meteora” dopo 20 anni, tutti questi dubbi appaiono nella nostra mente, così come la chiara consapevolezza che i Linkin Park non avrebbero potuto pubblicare un album numero due migliore di quello.

No, non stiamo dicendo che “Meteora” è il miglior album dei Linkin Park (e non siamo neanche qui per far cambiare idea a chi lo pensa), ma che siamo davanti ad un secondo album perfetto in ogni sua caratteristica – piccoli difetti compresi. Con l’ombra di “Hybrid Theory” troppo grande da una parte e un burrone colmo di incertezze fin troppo profondo dall’altra, il sestetto sceglie la terza via e dà vita ad un album pieno di pezzi che mantengono caratteristiche simili a quelli precedenti, ma meno grezzi. Gli angoli vengono arrotondati, vengono presentati un paio di esperimenti – alcuni riusciti, altri meno – il tutto senza andare a modificare il segreto del successo dell’esordio, ovvero il devastante impatto emozionale dei pezzi. I temi e la rabbia espressa nelle note rimane immutata, quello che cambia è un’ulteriore apertura verso la melodia. E proprio a questo proposito è interessante ascoltare le demo inedite appena pubblicate in occasione del ventesimo anniversario e vedere come alcuni pezzi esclusi dal lotto finale presentino caratteristiche simili a quelli di “Hybrid Theory” (pensiamo a “Massive”, quasi intrisa di una furia deftoniana), mentre in altri come “Healing Foot” o “More The Victim” sono riconoscibili sfumature di quello che succederà con “Minutes To Midnight”.

Allo stesso tempo è chiaro come tutti questi inediti (una volta completati, si intende) avrebbero potuto far parte di “Meteora”. Questo è chiara dimostrazione del fatto che i Linkin Park, nonostante si trovassero in un mare in tempesta, abbiano avuto immediatamente la maturità di fare le giuste scelte e scrivere canzoni pensando ad un album compatto, prendendosi una dose minima di rischio. E forse è questo il motivo per cui questa volta non abbiamo 11 potenziali singoli su 12 canzoni – anche se il numero rimane comunque spropositato per una band in quella situazione – e troviamo anche forse un paio di pezzi leggermente sotto tono (“Hit The Floor” e “Nobody’s Listening”), ma rimane il fatto che, pur nella sua solitudine del numero due, “Meteora” è un album che a due decenni di distanza conserva ancora un’identità ben precisa, oltre ad aver dimostrato che i Sei non erano una delle tante band di passaggio nate sul finire dello scorso secolo: i Linkin Park erano sulla vetta per rimanerci.

Il resto è oggettivamente storia: ancora prima che l’album venisse pubblicato, fin dalle prime esibizioni – come quella a Milano del 2003 – i nuovi pezzi sono stati immediatamente amati dai milioni di fan e il Verbo dei Linkin Park ha continuato ad estendersi, abbattendo ogni difficoltà. Stiamo parlando di un album la cui canzone di punta è diventata la prima canzone rock a raggiungere il miliardo di visualizzazioni su YouTube, il cui magnifico intermezzo strumentale (“Session”) è finito nella colonna sonora di uno dei più grandi successi cinematografici di quegli anni, i cui singoli sono diventati inni che qualsiasi abitante del pianeta dotato di udito ha più volte ascoltato nel corso di questi anni, volente o nolente. Ma oltre agli equilibri di “Somewhere I Belong”, ai ritmi maniaci di “Faint”, agli incastri di “From The Inside” (dà quasi fastidio accorgersi di quanto perfetto sia l’equilibrio tra melodia e violenza in pezzi come questi), “Meteora” scava e porta alla luce nuove strade in pezzi come “Easier To Run” e “Breaking The Habit”, che non a caso rappresentano probabilmente le vette artistiche ed emozionali dell’album. Pezzi colmi di melodia, di oscurità e di sofferenza, riviste sotto una lente estranea sia alla violenza cieca di “Hybrid Theory”, che alla maturità di “Minutes To Midnight”.

Forse è non completamente vero che ascoltare “Meteora” dopo 20 anni ha lo stesso effetto della prima volta. La funerea consapevolezza di non poter più ascoltare il timbro miracolato di Chester Bennington è mitigabile solo dalla gioia di avere l’opportunità di scoprire queste “nuove vecchie canzoni” mai pubblicate. Un mix di sentimenti e sensazioni sicuramente estraneo alla schiera di piccoli outsider rimasta fulminata vent’anni fa da brani scritti da un altro manipolo di outsider, solo con qualche dote fuori dal comune. Ascoltare “Meteora” nel 2023 – oltre a sentire una serie di canzoni ancora significative – vuol dire immergersi in un mare di nostalgia e lasciarsi aggredire dalle consapevolezze di cui sopra. Uscirne in lacrime o con il sorriso è equivalente.

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