Sono le due del pomeriggio. La quinta data dello Sziget Festival deve ancora iniziare e il prato del palco The Buzz, comprensibilmente deserto, è tutto una nuvola di polvere a causa del forte aumento delle temperature degli ultimi giorni. Diego Caterbetti si siede nel suo camerino, stravaccato e a torso nudo come ci si aspetterebbe dal suo personaggio, e si accende una sigaretta. Nel parlare è piacevolmente schietto, alcuni direbbero “scurrile”, ma d’altro canto si capisce subito che non ci sarebbe modo di parafrasare ciò che dice senza perdere di veridicità. L’impressione che si ha parlando con Naska, infatti, è che non ci sia un vero “personaggio” dietro il microfono: solo la versione più avventata e irriverente di un ventenne che ha avuto la faccia tosta di riportare in Italia con successo un filone dimenticato, bistrattato nella sua nostalgia e nella sua ribellione adolescenziale. Cosa di cui – come ci racconta qui – va estremamente fiero.
Ciao e benvenuto su SpazioRock! Come stai?
Bene. Mi fa male la gola, perché ieri siamo venuti al festival e c’era un sacco di polvere. Però sono abbastanza attrezzato.
Menomale! D’altronde, ormai tra poche ore suonerai al The Buzz, allo Sziget Festival…
Che figata!
Che figata, decisamente! Come ti senti, cosa ti aspetti da stasera?
Questa è la prima volta che suono fuori dall’Italia: non vedo l’ora di vedere come reagirà il pubblico che magari non mi conosce e che passa di qua. E quindi cercherò di dare il più possibile per fare una bella impressione a chi non mi conosce.
Che poi, comunque, qua ci sono veramente tantissimi italiani.
Eh, ho visto, ho visto! Infatti vado in giro e becco persone che chiacchierano…
L’altro giorno, sempre qui al The Buzz, c’era Venerus e il pubblico era solo di italiani.
Ah! Be’, spero comunque di beccare anche altri.
Sicuramente, poi è anche uno dei palchi più quotati.
Top.
Vieni spesso definito il nuovo “alfiere” del pop-punk italiano. Ultimamente c’è stato un bel revival in questo genere, come mi hanno detto altri artisti oltreoceano: c’è stato un periodo in cui non c’era più musica rock – o almeno pop-punk, sicuramente – e adesso è tornata in pompa magna.
Esatto!
Qual è la tua prospettiva su questa cosa?
Allora, io sono cresciuto con MTV – sono del ‘97 – e quando ero piccolo c’era quel genere di musica lì, andava maggiormente. Io ho iniziato a fare musica dieci, undici anni fa: non facevo, all’inizio, pop-punk, perché era troppo difficile beccare il chitarrista, il bassista, la batteria, perché ero in un paesino piccolo. Poi vedevo che la musica stava diventando un po’ stantia… giravano sempre le stesse cose. E ho detto “cazzo, per spaccare bisogna fare qualcosa che non fa nessuno”, no? Tappare un buco di mercato. Comunque io, con Lil Peep [una delle sue influenze, ndr], avevo già ricominciato a mettere sotto le chitarre, e ho detto “ma perché fare l’emo-trap, roba così? Fanculo, faccio pop-punk e basta”. Autentico, com’era negli anni Duemila. E quindi ho detto “riporto quello lì e farò solo quello”.
Hai avuto qualche difficoltà nel portare questo genere, nel fare questo “cambio”?
Sì, perché all’inizio l’etichetta con cui ero – che non è quella di adesso – era tipo “ma che cazzo fai?”, “non funzionerà, non andrà mai bene”… e io che ho fatto? Ho mandato a fanculo quell’etichetta, ho fatto quello che volevo fare io, non me ne fregava niente. Ho continuato a farlo, a farlo, a farlo, ci credevo più io che le persone in giro, finché quelle persone non ci hanno creduto come me.
Questo intorno a quale periodo?
Cinque anni fa. Già con quell’etichetta lì me ne sbattevo il cazzo e facevo uscire la roba pop-punk.
E alla fine ha funzionato. Come mai, secondo te?
Perché è quello che ho pensato io sei anni fa dicendo che la musica stava diventando un po’ stantia, e che comunque i cantanti rappresentavano solo una cerchia che non era tutto quanto. Non tutti vengono dalle popolari, non tutti vengono dallo spaccio: mancava una cerchia un po’ più emotiva, un po’ più ribelle, un po’ più punk-rock. Quindi per quello sta funzionando.
Anche tra le nuove generazioni, nelle quali di solito si presuppone che il rap e la trap vadano per la maggiore.
Secondo me perché mancava proprio uno stimolo attraverso le piattaforme, i social: una volta c’era MTV, adesso non c’è, adesso va quello che dicono le pagine rap. E non c’è nessun’altra pagina che ti dica “guarda che, oltre a quello lì, c’è anche questo, c’è gente che suona gli strumenti!”.
Però è un mondo con cui tu hai comunicato [la sua “Berlino” vede la collaborazione di Gemitaiz e Greg Willen, ndr]. Come ti è sembrato questo mondo rispetto a quello del rock? Secondo te ci sono dei punti di convergenza?
Non ci fotto tantissimo. Cioè, quasi zero. Quindi sicuramente qualche cosa si allinea – tanti rapper vengono comunque dal punk-rock – però non ci fotto tantissimo.
Capisco. Parliamo di punk-rock anche a livello di “stile di vita”: cosa significa per te, da questo punto di vista?
Che magari il trapper è più un eccesso di “flex”, ostentazione. Io faccio quel cazzo che mi pare, vado in giro, torno in barella spaccato… è più punk-rock che eccesso di ostentazione.
Perciò cosa significa, per te, essere “rock’n’roll”, in un certo senso?
Che appunto, quando andava di moda tutta un’altra cosa, io ho fatto tutto il contrario, tutto l’opposto.
“Andare contro corrente”, in sostanza.
Esatto.
Quale delle tue canzoni pensi che in questo momento rappresenti meglio questo spirito?
Eh, deve uscire…
Ah! Ma se dovessi sceglierne una tra quelle che sono già uscite?
Adesso? “Punkabbestia”.
Ci sta! Per concludere, adesso lo Sziget è la primissima fermata all’estero: dove ti vedi prossimamente?
Al Forum il 7 dicembre [ride, ndr].
E sempre all’estero?
Eh… boh!
Magari un “When We Were Young”, un giorno? È quel festival in America dove fanno solo musica pop-punk.
Ah, non lo conoscevo!
Ha avuto molto successo, recentemente, ci sono state due edizioni. Un giorno ti ci vedrei!
Magari, magari!
Perfetto. Questa era la mia ultima domanda, grazie mille davvero per il tuo tempo!
Grazie a te!