Trent’anni di Sziget.
Un traguardo che il festival ha celebrato, come al solito, con un’edizione alquanto partecipativa. Più di un migliaio di artisti si è alternato sugli innumerevoli palchi disseminati per i settantasette acri di terreno utilizzati a Óbuda, l’isola nel Danubio che dal 1993 a questa parte (con la sola eccezione del biennio 2020-2021, ovviamente causa Covid) si è via via affermata come uno dei maggiori festival nella scena musicale europea. “Il cinquanta per cento dei visitatori non è ungherese” ha spiegato il CEO Tamás Kádár in conferenza stampa, “e questo lo rende uno dei festival più internazionali d’Europa”. L’atmosfera, che Kádár definisce “molto diversa da altri festival” e “un aspetto chiave”, ne è una motivazione fondamentale: a colpire sono soprattutto le variegate attività relative non solo alla musica, ma anche ad altri ambiti, quali le arti visive, il circo, la danza, l’attività fisica, l’attivismo e i progetti di inclusione (segnaliamo la meravigliosa XS Land, un mini parco avventura gestito da – e a misura di – persone con disabilità). Girovagando per le strade dello Sziget, si può subito constatare che non vi è angolo di terra in cui non stia sempre succedendo qualcosa, che sia il palco del karaoke di fronte al supermercato o enormi creature simili a dinosauri (i “Birdmen”) che si aggirano tra i presenti. È un piccolo Paese delle Meraviglie, un’esperienza unica — soverchiante, possibilmente faticosa, ma senz’altro da provare.
Quest’anno dai tre palchi principali – Main Stage, Revolut, The Buzz – è arrivata una miriade di ottime performance anche nel mondo della musica rock e alternativa. A partire dal primo giorno, aperto da Blondshell al Revolut nel tardo pomeriggio. L’artista americana ha portato in scena le atmosfere introspettive del suo esordio omonimo, uscito l’anno scorso, conquistandosi in via definitiva l’ammirazione di coloro – anche italiani – che avevano letto il suo nome per la prima volta sul cartellone del festival, rimasti affascinati dalla qualità di musica e scrittura (un plauso per intensità emotiva, su entrambi i fronti, va sicuramente a “Salad”, in chiusura alla setlist). Sono stati altresì una conferma i Royel Otis al The Buzz, anche loro esordienti, chiacchieratissimi nel mondo dell’indie e già conosciuti da una nutrita schiera di fan. I due hanno saputo intrattenere bene anche il pubblico nuovo, stando alla velocità con cui si è riversato nelle strade per cantare a squarciagola il ritornello di “Oysters in My Pocket” e della cover di “Linger” dei Cranberries. Decisamente un successo.
I livelli sono rimasti altissimi nel secondo giorno, in cui eccezion fatta per i Joker Out al Main Stage (molto bravi e apprezzatissimi in patria: c’erano parecchie bandiere slovene), il Revolut Stage l’ha fatta da padrone. Dapprima le Nova Twins, di cui non si può dire niente, se non osservare meravigliati la nonchalance e la sicurezza con la quale, rispetto alla piccola data da headliner a Milano, Amy Love e Georgia South padroneggiano venues immense; poi Grandson, il cui ingresso con le manette ai polsi ha generato un boato d’istantanea adorazione. L’artista canadese è un terremoto non solo nella musica, ma anche e soprattutto nei contenuti: politici, come da prassi nei suoi testi, e personali, come “Heather”, un brano sulla salute mentale dedicato ai fan e agli artisti “che non ci sono più”. È stato un momento commovente, anche per Grandson stesso. Infine, è arrivata sul palco Aurora, la cui performance dal vivo risponde poco all’appellativo di “concerto” e molto di più a quello di “visione celestiale”. Sono state ipnotizzanti la scenografia dei suoi brani, la potenza delle sue vocals, le sue movenze strane eppure così armoniche. L’elemento folk e tribale della sua musica ha raggiunto, nella dimensione live, il massimo pathos. E vi è una particolare bellezza nel fatto che i messaggi di Grandson e Aurora siano stati tra loro speculari: se il primo indossava la maglia dei Rage Against The Machine e diceva al suo pubblico di non scusarsi per essere “incasinati come siete, in questo mondo incasinato”, la seconda, danzando vestita come Florence Welch, ha mormorato “Viviamo in un mondo bellissimo: pensate a come sarebbe più bello se non dovessimo combattere per i nostri diritti”.
Il terzo giorno, sia pure meno “drammatico”, è stato caratterizzato da performance altrettanto variegate. Al Main Stage nel pomeriggio, Yves Tumor ha riempito il pit senza grande fatica, presentandosi con una mise alquanto tamarra che però si è abbinata sorprendentemente bene ai sorrisi genuini rivolti al pubblico (quasi a rappresentare visivamente lo stile tutto suo con cui si contraddistingue). Ottima la band – specie il chitarrista Maro Chon, dagli atteggiamenti à la Slash e il look in pendant con quello dell’artista principale –, sebbene in alcuni brani (“Jackie”) l’evidente lip-sync abbia fatto storcere un po’ il naso. Al The Buzz Venerus ha portato un set ben suonato, molto “hippie” (“Qualcuno ha da accendere?” ha chiesto lui a un certo punto — fuori contesto, ma solo in apparenza). Sebbene il suo sound – una ricercata miscela di jazz, r&b e funk – sia parecchio “internazionale”, il pubblico accorso era completamente italiano; non che a Venerus abbia dato alcun fastidio, essendosi anzi fermato dopo lo show a chiacchierare con i fan. Data l’omogeneità dei presenti, essi si sono anche dispersi facilmente, lasciando ai Future Static un parterre pressoché vuoto; la bravura degli australiani nel portare in scena un metalcore ben fatto, però, ha velocemente attratto orde di persone che ne sentivano la mancanza nella lineup dello Sziget. “Grazie a tutti per essere venuti, in un festival come questo non ce lo aspettavamo” ha dichiarato la frontwoman Amariah Cook, che in onore del suo background in Spagna si è cimentata in una versione metal di “Gasolina”. Infine, di nuovo al Main Stage, Liam Gallagher e la sua band hanno portato in scena tutto “Definitely Maybe”. Gallagher si è presentato con lo stesso parka verde e le stesse maracas con cui l’avevamo lasciato a Milano, ma con decisamente più voce; il live è proceduto spedito, si è ballato e cantato dall’inizio alla fine, ma il set è terminato con almeno un quarto d’ora d’anticipo. Se è vero che il disco era finito ed era stato suonato con tanto di b-side, è anche vero che, come nel tour dei Green Day di quest’anno, aggiungere qualche brano extra in coda alla scaletta non sarebbe stata una pessima idea.
La quarta giornata ha visto, nel mondo della chitarra elettrica, una tendenza a sound più introversi e psichedelici. A partire dagli ungheresi Platon Karataev, al Revolut, i cui presupposti di “esplorare il subconscio collettivo” si sono ben riflettuti nel live: è uno di quei casi felici in cui, pur non sapendo collegare i suoni delle parole a dei significati, la musica è in grado di farceli intuire da soli. Un po’ folk, un po’ post-rock, un po’ letterati (Platon Karataev è il nome di un personaggio di “Guerra e pace”), le loro canzoni suonate dal vivo sono un intrigante viaggio mentale. Sullo stesso palco, poco dopo, sono giunti i Crows, band post-punk made in England. Sostituire quasi all’ultimo un gruppo atteso come i Mannequin Pussy non era un compito facile, ma i quattro se la sono cavata molto bene, grazie a un live compatto e all’ottima presenza scenica del frontman James Cox. È probabile che quasi nessuno li conoscesse, il che rende ancora più lodevole l’accoglienza fantastica da parte del pubblico. La serata si è chiusa, al The Buzz, con i God Is An Astronaut — i quali, coerentemente al loro nome, hanno offerto al pubblico un’esperienza a dir poco spaziale. Da osservare ipnotizzati, al punto quasi da dimenticare i nuvoloni di polvere che nelle ultime ore avevano iniziato ad avvolgere gli spettatori. Se i Platon Karataev erano la prova che non sempre serve capire il testo di una canzone per provare forti emozioni, gli irlandesi hanno dimostrato che a volte il testo non serve affatto.
L’arsura ha cominciato a farsi pesante il quinto giorno, causa un aumento delle temperature non indifferente (se non altro lo Sziget mette a disposizione distributori d’acqua fresca gratuita, il che aiuta a combattere il caldo). Ma gli spettatori nel tendone del Revolut hanno resistito all’impulso di abbandonare la transenna in favore della spiaggia, anche perché mentre al The Buzz Naska si stupiva della presenza massiccia di pubblico italiano accorso a vederlo (e che ha assistito a uno show vivace, divertente e ben suonato), al Revolut è stata la giornata del post-punk per eccellenza. Alle diciotto e quarantacinque gli Editors hanno tenuto una lectio magistralis nel loro ambito di competenza: stilosi come la loro musica, i cinque – a cui si è aggiunto, due anni fa, Benjamin John Power, in arte Blanck Mass –, hanno creato uno show magico, in cui i brani più intensi dal vivo si sono elevati a uno stato di grazia cosmica e assoluta. Da ascoltare a occhi chiusi (ma pure aperti, per non perdersi i balletti di Tom Smith). E poi è arrivata sera, si è fatta l’ora di passare il testimone ai nuovi alfieri del genere: l’iconica insegna al neon ha preceduto l’arrivo dei Fontaines D.C. sullo sfondo di colori altrettanto acidi e allucinati. I cinque dublinesi sono, per gli astanti, la somma manifestazione d’inarrivabilità ed epicità mitica, nonostante si siano presentati tutti vestiti per andare al supermercato. Ma forse è proprio nel savoir-faire stralunato di Grian Chatten – capelli scompigliati, movenze teatrali e immancabili occhiali da sole – che si cela il magnetismo di questa band: una che pare capitata sul palco con noncuranza, intanto che scrive un pezzo di storia del rock di questo decennio a suon di carisma unico, testi poetici e bellissima, ignota nostalgia.
Sembrava finita, invece la quota post-punk aveva ancora qualcosa in serbo per i suoi appassionati — “qualcosa” corrispondente al nome di Yard Act, al Revolut, la sera dell’ultima giornata. Carico a mille, il gruppo di Leeds ha portato in scena uno show saturo di contenuti cinici e disillusi, eppure irresistibilmente danzereccio, coerentemente alle atmosfere dell’ultimo album, uscito lo scorso marzo. Nonostante, dopo quasi una settimana di festival, la stanchezza si facesse sentire – cosa che ha riconosciuto anche il frontman James Smith –, l’entusiasmo degli inglesi, accompagnati dalle coriste Daisy J.T. Smith e Lauren Fitzpatrick, è stato comunque contagioso, e in men che non si dica ci si è ritrovati tutti a ballare. È stato dunque con sorrisi soddisfatti che si è concluso il nostro viaggio, sulle note dei Big Thief, di fronte a questo “palco B” che per sei giorni ha ospitato così tanta, splendida musica dal vivo. I toni malinconici della band di Brooklyn e le vocals soavi della frontwoman Adrienne Lenker, del resto, sono la colonna sonora perfetta per un momento di autoriflessione. Nel frattempo il festival era ormai finito — restava solo da approfittare di questo attimo di tranquillità prima di andare a ballare un’ultima volta da Fred Again al Main Stage.
“Crediamo che, giacché l’industria musicale sta andando incontro a uno sviluppo, noi dobbiamo avere una risposta all’aumento di artisti che si sta verificando dal periodo covid” ha detto Tamás Kádár, alla conferenza stampa, quando è stato chiesto il perché di una lista di headliner, per molti, al di sotto delle aspettative. “E crediamo che per il nostro marchio la risposta sia la completa diversità della programmazione — non spendere milioni e milioni di euro per i nomi più grossi”. Ha aggiunto József Kardos, direttore artistico: “Altri grandi festival hanno consolidato molto bene i loro marchi: riescono a vendere biglietti senza la lineup e li vendono molto bene. Questo è ciò a cui vogliamo arrivare”.
Che la risposta stia davvero qui, in effetti? Che intraprendere la strada del pluralismo – differenziando quanto possibile la proposta musicale, anziché concentrarsi su pochi grandi nomi – sia ciò che in futuro premierà i festival e la musica dal vivo?
Ora come ora, non lo possiamo sapere — ma sappiamo che a noi la proposta dello Sziget di quest’anno è piaciuta parecchio. Ed è piaciuta anche alla moltitudine di italiani che chi scrive ha avuto modo d’incontrare (un riconoscimento speciale alla bandiera della Sicilia che i suoi proprietari hanno sventolato ovunque). Alla fine il fulcro dello Sziget, per il bene del suo appeal, rimane e dovrà rimanere lo stesso: l’isola della Libertà, un “Paese delle Meraviglie” dove per sei giorni l’anno tutto può succedere.