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Ozzy Osbourne – Patient Number 9

Se, in generale, gli ultimi anni non sono stati proprio rosa e fiori per nessuno di noi, per Ozzy Osbourne il tempo è stato ancora più inclemente: una caduta che lo ha costretto ad operarsi al collo e cancellare il tour americano, un’infezione alla mano, una diagnosi di Parkinson e, per stare al passo coi tempi, la malattia da Covid-19. Il tutto superato come se nulla fosse (o quasi) grazie alla forza di volontà di un ragazzino di appena 73 anni. Ecco dunque spiegato il cambio di immaginario dal mitigato anzianotto che guarda il film della sua vita nel precedente “Ordinary Man”, al guerriero rinvigorito di “Patient Number 9” che sfida la morte, la guarda negli occhi, e la manda a farsi fottere.

I’ll never die cause I’m immortal” canta Ozzy nella seconda traccia del suo tredicesimo album da solista (scaramanzia a parte), quasi a trattarsi di un esorcismo. In “Patient Number 9” il modo migliore di liberarsi della Dama Nera dopo aver schivato la sua falce innumerevoli volte è con un beffardo brindisi alla salute. Il Principe Delle Tenebre raduna amici di nuova e vecchia data, tra cui il commilitone Tony Iommi con cui scrive per la prima volta un pezzo in un album solista. Iommi fa parte di un cast di supporto stellare: Eric Clapton, Jeff Beck, il chitarrista di lunga data Zakk Wylde, Josh Homme, Mike McCready dei Pearl Jam e il compianto Taylor Hawkins. Ciò che rende davvero grande “Patient Number 9”, come in un gigantesco simposio, è la spinta a tirare fuori il meglio dalla collaborazione di ogni ospite, a cominciare dal produttore Andrew Watt che bilancia finemente ogni traccia, i ritornelli vengono resi abbastanza grandi e audaci da attirare l’attenzione ma non da oscurare l’essenza dell’attrazione principale. Il lamento cupamente disperato di Osbourne è in primo piano, le sue liriche intatte: oltre all’occulto, c’è molto sulla malattia mentale – “Ti dicono che sei pazzo, credi alle loro bugie?” – e una leggera invettiva sull’inutilità del conflitto e il male di chi detiene il potere: “Un circo di pazzi che gestisce lo spettacolo“, “La distruzione non porta mai al cambiamento“, dove sembra di sentire eco di sabbathiana memoria.

Nonostante una vastità di stili diversi, il suono dell’album riesce a essere attuale – c’è un uso audacemente lampante dell’Auto-Tune qua e là – mentre ci si muove abilmente tra lo sludge dei Sabbath, il pop-metal più patinato degli album degli anni ’80 di Osbourne, come “Bark At The Moon” e “The Ultimate Sin”, e uno strano e intrigante cambio di rotta, in particolare in una “A Thousand Shades” carica di archi, che strizza l’occhio al fandom dei Beatles. Le canzoni sono ben scritte, coraggiose nella loro struttura, curatissime in ogni assolo in cui la sei corde la fa da padrona, tutte appartenenti a un certo stile neo-vintage anni ’80 ma a modo loro mai simili a nient’altro. E occasionalmente i testi sconvolgono la mente, il che ci porta a “Degradation Rules”, musicalmente uno degli apici dell’album: vede coinvolto Iommi e, come in “Damaged Soul” dall’ultimo album dei Black Sabbath “13”, si cerca di andare oltre l’etichetta di “padrini del metal” toccando le antiche radici di una specie di gruppo blues-rock oscuro e distorto. Ma il vero acme è l’apertura con una pesantissima e teatrale title track, che vede Ozzy al fianco di Jeff Beck in uno dei pezzi più riusciti della sua carriera solista. Pesantissimi riff si alternano in una struttura a incastri, elevata da una febbrile melodia nel ritornello, mentre massicci gli stacchi rendono epico l’andamento del brano. In contrasto, il disco si conclude con “God Only Knows”, una ballata rock da stadio che vede Osbourne contemplare la propria mortalità in termini antitetici fortemente toccanti: “Non so se ce la farò, ma sto rinunciando al controllo” – e drammatici: “È meglio bruciare all’inferno che svanire”, in una perfetta rielaborazione del vecchio testo di Neil Young che è finito a far parte del biglietto d’addio di Kurt Cobain.

A metà tra il cattivo di un film horror, un demone e un sopravvissuto, non c’è spazio per la malinconica nell’ultima missiva del Principe delle Tenebre: certo, in questo momento, la confusione, la paranoia e una certa mancanza di speranza dominano nel mondo (“Ci sono mille diverse sfumature di oscurità che colorano il nostro destino“, dichiara in “A Thousand Shades”) ma non c’è spazio per la nostalgia: “Il passato è morto; il futuro è infestato.” Bisogna ammetterlo: si è pensato che il precedente “Ordinary Man” rappresentasse l’ultimo sforzo di Osbourne prima del ritiro definitivo; con “Patient Number” 9 il pensiero neanche ci sfiora.

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