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The War On Drugs – I Don’t Live Here Anymore

Risulta davvero difficile approcciarsi ad un lavoro come “I Don’t Live Here Anymore”, ultima fatica dei The War On Drugs, che esce a distanza di quattro anni dal precedente “A Deeper Understanding”, vincitore di un Grammy come Best Rock Album. Difficile ripetersi, ed è facile rendersene conto ascoltando questo nuovo lavoro.

“Living Proof” apre il conteggio dei dieci brani che Adam Granduciel e compagni mettono insieme. Ci troviamo davanti ad una ballatona tutta sentimento e ricordi lontani che convince più per stile e portamento che per le idee di composizione. Da qui in poi, è spiacevole notarlo, si apre la strada per sensazioni di deja vu e soluzioni già ben note. “Harmonia’s Dream” ci riporta, infatti, esattamente dove ci aspettavamo: un classico esempio di rock dreamy fatto di sentimenti e synth studiati ad arte che hanno (troppo) spesso trovato spazio nelle composizioni della band di Philadelphia. Suona tutto molto bene, ma c’è mai un picco che porti in alto l’ascolto.

Anche nella successiva “Change” la storia rimane la stessa. Strofa, ritornello e due minuti di outro strumentale in cui mancano quelle schitarrate acide, quelle incursioni di sax, quella frenesia che avevamo apprezzato nei lavori precedenti e soprattutto nelle performance dal vivo. Scorriamo veloci e un po’ desiderosi di sentire qualcosa di più interessante in “I Don’t Wanna Wait”. Ed effettivamente qualcosa c’è. I suoni si fanno più grezzi e sudati, strutturalmente siamo di fronte ad un brano che sta in piedi grazie ad un ritornello che sa molto serie tv metà anni ’90. La cosa funziona, ma a tratti sembra essere più una carineria poco ispirata.

Siamo a metà del disco quando parte “Victim”, costruita su un bell’arpeggiatore elettronico e un beat sintetico che si incollano bene al basso di David Hartley. Viene da alzarsi in piedi e ballare, sembra proprio di stare in una pista da ballo sporca e scura a meta degli anni ’80. Oggi però siamo nel 2021 e questa roba è vecchia da un bel po’. Davvero un peccato. Con la title track, singolo che già abbiamo conosciuto in questi mesi scritto con la brillante collaborazione di Lucius, l’asticella si alza ed sembra quasi un peccato, perché sappiamo benissimo che questa band è in grado di proporci della grande musica. Evocativo, brillante, un brano che nei suoi quasi sei minuti ti tiene incollato all’ascolto. Un raggio di luce in un disco che fino ad ora non ha lasciato granché a chi l’ascolta.

Piano e synth sognanti aprono (ancora una volta) “Old Skin”, che sembra essere l’ennesima ballatona alla “quant’erano belli i vecchi tempi”: il pezzo si protrae stanco, con una sola particolarità nell’armonica che entra sul finale a rafforzare le linee melodiche. Diventa difficile distinguere una canzone dall’altra, sia a livello di strutture che a livello di produzione. Sulle linee vocali, invece, poco da dire: la loro identità sviluppata nei decenni di carriera rimane sempre e comunque riconoscibile.

Emerge una chitarra acustica in primo piano, è l’inizio di “Rings Around My Father’s Eyes”, rinnovata ballata sentimentale che gioca sulla semplicità di elementi ben incastrati tra loro. Come quasi tutti i pezzi che l’ha preceduta fino ad ora, ha il difetto di durare eccessivamente senza motivo. Quando arrivati a metà del brano strofe e ritornello si sono individuati, ci si aspetta che il resto del brano abbia qualcosa di nuovo in serbo per noi ascoltatori curiosi, ma a dirla tutta anche un po’ stanchi. No, non succede nulla.

Beat a fare da guida ad arpeggini leggeri e tappeti di elettronica timidi timidi sostengono la conclusiva “Occasional Rain”, che ripropone gli stessi pattern visti finora in dieci brani poco incisivi. Va a finire così questo disco, strisciato via senza aver lasciato quasi nulla. Quasi.

Assolutamente nulla da dire sui testi che, per gli appassionati del vivere la vita con rimpianto e mitizzazione delle occasioni mai avute, sono ben confezionati e danno una certa soddisfazione. Chissà che bel disco sarebbe stato se fosse stato suonato da una band di giovani vogliosi e non da questi The War On Drugs che appaiono stanchi e totalmente autoreferenziali.

Tracklist:

01. Living Proof
02. Harmonias Dream
03. Change
04. I Don’t Wanna Wait
05. Victim
06. I Don’t Live Here Anymore
07. Old Skin
08. Wasted
09. Rings Around My Fathers Eyes
10. Occasional Rain

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