Mutazioni. A volte è solo una questione di mutazioni, più o meno orribili e previste.
A più di dieci anni di distanza dalla prima volta mi ritrovo ancora a prendere la macchina, caricare un amico, lo stesso amico, e partire con un misto di timori ed aspettative per l’attesa data live dei Cradle of Filth. In cartellone ci sono anche Rotting Christ e God Seed, un menù di tutto rispetto servito nel non proprio spazioso “anfiteatro” dei Magazzini Generali che, noteremo, difetta di spazi ma abbonda in buona accoglienza. Fa un freddo cane e piove a dirotto (lo fa da giorni) ma questo non fa che aumentare la fame di racconti gotici ed altri orrori, in fin dei conti un tempo da lupi è quanto di meglio si possa chiedere per entrare in atmosfera. A questi poetici fastidi se ne somma però uno decisamente meno poetico… il traffico di Milano, una città che come tutte le sue pari soffre di una costipazione congenita che peggiora in modo sinistro alle prime gocce d’acqua che cadono sui parabrezza. Abbiamo cosi tutto il tempo di chiacchierare di quanto ci attende, di come le cose siano cambiate dai tempi di “Cruelty And The Beast”, quanto la meta era una provincia torinese e i pellegrini richiamati dall’evento erano solo un pugno di persone incomprese dai più. Un dialogo a metà tra anziani al bar del parco che parlano dei tempi andati e reduci di guerra a cui manca il fronte. Tra una chiacchiera e l’altra l’auto procede però a passo d’uomo, l’orologio digitale prosegue inarrestabile la sua corsa e il conto delle band che stanno passando sul palco dei Magazzini si fa irritante.
Giungiamo finalmente alla meta che i Rotting Christ hanno appena finito il loro show, possiamo solo farci un’idea della loro performance dalle facce soddisfatte dei presenti. Dobbiamo aspettare una decina di minuti perché i God Seed prendano posizione e diano inizio al loro concerto classico. Fatta eccezione per le intrusioni delle tastiere, i norvegesi mettono in scena uno spettacolo black metal che rispetta ogni canone, dalla musica in sé e per sé al face painting, il tutto corredato da una presenza di palco fatta di una quasi totale immobilità e un’incombenza sinistra e angosciante. Forse per pura casualità, forse per via di quei mutamenti che andremo ad approfondire più avanti, era diverso tempo che non assistevamo ad un black-stage fatto con tutti i crismi e questo forse ha reso più facile il lavoro dei God Seed ma porgiamo i nostri rispetti a questo pugno di anime nere che tanto ha saputo fare con, diciamocela tutta, cosi poca tecnica. Di quando in quando delle tastiere suonate da Goldrake sembravano cercare di fare breccia tra le linee serrate dei Nostri, il suono ricorda da vicino quello degl’effetti sonori dello storico Star Trek di settantiniana memoria… ma non si può avere tutto. I God Seed lasciano il palco tra urla entusiastiche ed imprecazioni variopinte, espressione di gioia popolare.
Veniamo cosi alla punta di diamante della serata, il piatto che abbiamo atteso con maggiore trepidazione. La band prende rapidamente posto accendendo un pubblico di fatto poco numeroso, almeno se paragonato con i dati di vendita delle ultime release dei vampiri. Di qui a poco saremo però tutti concordi nell’affermare che una volta di più la qualità ha la meglio sulla quantità, da ogni punto di vista. Filth e compagni scelgono di infiammare gli animi con una set-list che fin dal principio predilige i grandi classici dei loro anni più oscuri. Dopo l’apertura con la relativamente recente “Tragical Kingdom” estratta da “Godspeed On The Devil's Thunder”, si fa un passo indietro verso “Midian” e “Cthulhu Dawn”. I due pezzi sembrano servire alla band per scaldarsi anche se le chitarre faticano ad emergere. La ritmica è tenuta troppo bassa e la solista non riverbera quasi per nulla dando ai pezzi un irritante effetto Steve Vai. “Funeral In Carpathia” rimette però tutto al suo posto e permette ad Allender di dare prova delle sue doti di guitar hero del metal estremo. Segue “Summer Dying Fast” che conquista definitivamente gli astanti. Tra una “Lilith Immaculate” e una “Nynphetamine” Dani Filth da prova di raggiunta grande professionalità sostenendo con un inaspettato pulito la voce della corista Caroline Campbell, discutibile tastierista ma ottima seppure alternativa voce d’accompagnamento dal 2011, qui un po’ in difficoltà forse a causa di uno stato di salute non perfetto. Il richiamo alla old school del frontman nell’introdurre “The Forest Whispers My Name” esalta un’esecuzione magnifica. “Cruelty Brought Thee Orchids” e “Her Ghost In The Fog” portano tutto su un livello inusitato.
La gente pressata sotto il palco si lascia trascinare nelle danze e tra chi si lancia nel pogo e chi canta (?) a squarciagola le decadenti liriche sembra quasi di essere più ad un concerto degl’Anthrax che dei Cradle of filth. Il combo sul palco ha qualcosa di mai visto fino ad ora e per dirla tutta sono molte le cose buone mai viste prima che i Nostri riescono finalmente a regalarci. Merito di quelle mutazioni, orribili agl’occhi di molti detrattori, che hanno portato Dani a spogliarsi, almeno dal vivo, di tutti quegli orpelli inutilmente pesanti che rendevano cosi difficile la resa live. Liberatasi degl’inutili barocchismi la band sembra aver finalmente, dopo cosi tanti anni, trovato una sua personalità. Questo non significa che l’ultima forma assunta dalla bestia in continua mutazione non sia in grado di restituire la complessità delle composizioni che sono il marchio di fabbrica di casa Cradle Of Filth. Al contrario dal palco si percepisce una rilassatezza e una naturalezza nell’esecuzione mai osservata prima.
La bestia si è liberata della pelle di serpente che la ricopriva, o quanto meno è decisamente a buon punto nella muta. Imputare tanto apprezzamento alle sole capacità e scelte artistiche della band rischia però di risultare frettoloso. Qualcosa è mutato anche sotto il palco, non solo sopra. Il pubblico non è più formato solo da fanatici del genere acerbo e selvaggio della prima ora, ne dai combattuti sostenitori indecisi tra quanto sta accadendo e quanto è accaduto, entusiasti ascoltatori dei sussurri bestiali del primo disco e reticenti fan delle aberrazioni della città di Midian. Oggi il pubblico è formato per lo più da “novelli” sostenitori che hanno scoperto i Nostri nei primi anni di liceo all’uscita di Midian o che hanno, come chi scrive, mutato il proprio palato con il passare degl’anni viaggiando, più per caso che per intenzione, in sintonia con le trasformazioni dello stile Cradle of Filth. La fortuna interviene però anche sull’altro fronte, regalandoci non solo dei Cradle of Filth in stato di grazia ma anche un frontman divertito e divertente che non guasta mai. Se una nota stonata dobbiamo proprio trovarla possiamo solo segnalare una durata complessiva della performance un po’ ridotta e una chiusura affidata a quella “From The Cradle To Enslave” che ha fatto la fortuna commerciale della band ma che avremmo preferito avesse lasciato il posto ad una più meritevole “Queen Of Winter, Throned”. Nel complesso una grande serata!
Come nella loro ultima creazione il meglio viene nella parte più avanzata dell’opera, non nella scaletta della serata che lascia spazio poi ai pezzi meno storici, ma nell’opera intesa nella sua accezione più ampia di viaggio artistico.
Cradle of Filth, God Seed, Rotting Christ
27/11/12 - Magazzini Generali, Milano
Articolo a cura di Marco Somma
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