Riverside
Shrine Of New Generation Slaves

2013, InsideOut Music
Prog Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 07/02/13

The truth is I am a free man, but I can’t enjoy my life.

Questa la conclusione a cui giunge, dopo i due minuti di introduzione dell’opener e semi-title-track "New Generation Slave", l’anonimo io narrante che ci aveva già raccontato il concept di "Anno Domini High Definition" e al quale i Riverside, dopo quattro anni di silenzio, tornano a dar voce. Ne viene fuori un disilluso e spesso ironico racconto sul mondo di oggi e su alcuni dei suoi lati peggiori: la freddezza di una vita in cui si privilegiano i social network e i cellulari ai rapporti umani autentici, in cui la propria individualità viene persa nell’omologazione a caotiche e informi masse, e si sarebbe disposti a tutto per un fuggevole attimo di notorietà.

Dal punto di vista stilistico, si è dato ben poco seguito alla svolta prog metal di "Anno Domini High Definition". Il songwriting appare infatti più diretto, con melodie più orecchiabili e sonorità che piuttosto che ai Dream Theater preferiscono ammiccare al progressive degli anni 70. Ma "Shrine of New Generation Slaves" cresce ascolto dopo ascolto, svelando volta per volta le innumerevoli stratificazioni di canzoni solo all’apparenza semplici, mostrando come il quartetto di Varsavia abbia attinto a piene mani al meglio della propria più che decennale carriera, cesellandolo e rifinendolo per creare un’opera sì di più facile fruizione, ma inconfondibilmente in stile Riverside. 

Le otto canzoni che compongono il full-lenght seguono puntualmente il flusso di coscienza dello “schiavo della nuova generazione”, e a giovarne è la varietà del lavoro, se si considera che sbalzi d’umore tra frivola euforia e amare prese di coscienza avvengono continuamente, anche all’interno di uno stesso pezzo: in tal senso è emblematico il singolo apripista "Celebrity Touch", nel quale la band si concede tre minuti di strafottente spacconeria prima di abbandonarsi a una parte centrale riflessiva e sognante, che si protrae fino alla chiusura del brano. Segue il percorso inverso la già citata "New Generation Slave", la quale, dopo un crescendo ricco di pathos che vede come quasi unica attrice la voce di Duda, esplode con l’ingresso dell’intera band in un serrato up-tempo. "Feel Like Falling" è la traccia più spiazzante dell’intero disco, con la sua base quasi "funky" e il suo pre-chorus cantato interamente in falsetto: tale inconsueta spensieratezza verrà polverizzata a fine pezzo da un prolungato solo di chitarra distorta e da risoluti power chords.

L’altra faccia del disco è caratterizzata da toni molto introspettivi e malinconici, da sempre il territorio in cui il gruppo si muove più a suo agio. "The Depth of Self-Delusion" è un pezzo costruito su una mesta base di chitarra acustica, sulla quale si sviluppa una melodia dolce e molto orecchiabile; il minutaggio elevato, unito alla reiterazione del tema principale, lo rende però leggermente ripetitivo. Di ben altra caratura è la sentimentale "We Got Used To Us", che ha come protagonista il piano di Lapaj, per buona parte della canzone unico accompagnamento di linee vocali di inusitata bellezza.  La mesmerizzante "Deprived" sfocia in ambiti di competenza dell’art rock: la apre un delicato ma allo stesso tempo oscuro arpeggio, sul quale si spiegano eteree vocals sussurrate; la chiude un inedito, raffinato solo di sax. Nel mezzo, una parentesi di ossessivo synth che mostra come Duda abbia fatto tesoro delle deviazioni dark ambient del suo progetto solista Lunatic Soul (si pensi alla strumentale "Where The Darkness is Deepest").

Immancabile la lunga suite "Escalator Shrine", traccia che ha il merito di riprendere gran parte dei temi trattati in precedenza, condensando il tutto in una solenne progressione che trova il suo culmine nel marziale climax finale. Infine, "Coda" riprende in chiave acustica il tema principale di "Feel Like Falling", cambiandone il testo quel tanto che basta per dargli una sfumatura di significato completamente diversa, dando così, in chiusura, una nota di sincero ottimismo, un lieto fine.

Take. Use. Throw away. Forget.

E’ questa, fidandosi delle lyrics di "Escalator Shrine", la filosofia dell’uomo di oggi. Che sia vero o meno, di certo è impossibile applicare questo schema all’ultima fatica della band polacca: "Shrine of New Generation Slaves" è un disco affascinante, intenso, che incanta a ogni ascolto. Un lavoro maturo e completo, con uno stile personale che riesce a svincolarsi definitivamente dai paragoni con i più affermati esponenti del genere. Aspettative quindi rispettate in pieno per questa  quinta fatica dei Riverside, ci si chiede adesso quali ulteriori evoluzioni possano avere in serbo. Nella speranza che per scoprirlo non occorrano altri quattro anni.



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