Bon Jovi
7800 Fahrenheit

1985, Mercury Records
Hard Rock

Recensione di Daniele Carlucci - Pubblicata in data: 11/11/10

I Bon Jovi sono sicuramente tra le band più discusse di sempre; troppo commerciali, troppo bellocci, troppo pop, troppo radiofriendly, troppo glam e potrei continuare a lungo ad elencare le accuse mosse alla formazione del New Jersey nel corso degli anni. Si può discutere su tutto, ma il gruppo di Jon Bon Jovi è innegabilmente uno di quelli che hanno fatto la storia dell'hard rock, uno di quelli che hanno davvero lasciato il segno. Dopo il successo dell'omonimo album d'esordio, i Bon Jovi il 12 aprile 1985 pubblicano “7800° Fahrenheit”: il titolo prende spunto dalla temperatura raggiunta da un vulcano in eruzione, mentre sulla cover fa la sua comparsa per la prima volta il logo che oggi tutti conosciamo e associamo immediatamente alla compagine americana.

Sulle ali del buon debutto, accolto positivamente da fan e critica, ci si aspetta il salto di qualità, ma in realtà il secondo disco della band si rivela un mezzo passo falso. Forse composto troppo velocemente per continuare a surfare sull'onda prodotta dall'opera precedente, il nuovo album ottiene una risposta abbastanza fredda e gli stessi componenti dei Bon Jovi, nel tempo, hanno dichiarato di non essere soddisfatti di “7800° Fahrenheit” e avrebbero potuto e dovuto fare di più. Per consolidare la tesi appena ipotizzata va detto che ai musicisti vengono concessi la miseria di quattro giorni di riposo dopo il tour di supporto al primo full-length e il nuovo disco prende forma in sole tre settimane. Certamente questo può aver inciso, ma fatto sta che l'album non convince: pur giocando ancora con il contrasto tra hard rock e pop metal, le canzoni non lasciano il segno e mancano i pezzi forti, in grado di ripetere quello riuscito alla hit “Runaway”. Alcune composizioni sono discrete, altre decisamente superflue e superficiali, ma quello in cui “7800° Fahrenheit” fallisce è il fatto di non coinvolgere mai totalmente l'ascoltatore, come se invece di prenderlo di peso e trascinarlo all'interno delle storie narrate, lo aggirasse e scorresse via un po' nell'anonimato. Ciò è anche conseguenza delle sonorità utilizzate, meno dirette e più pompose rispetto all'opera precedente, che non aiutano nello stimolare interesse. Personalmente reputo “The Hardest Part Is The Night” il brano migliore dell'intero lotto per distacco, in quanto immediato, d'impatto e con melodie accattivanti e ben articolate. Buone anche l'opener “In And Out Of Love” e “Only Lonely”, ma, come detto, sono assenti dei veri e propri brani di richiamo e, in generale, l'impressione che filtra dall'album è quella di un'ispirazione piuttosto modesta nella stesura delle tracce.

“7800° Fahrenheit” è il disco meno riuscito della band americana, probabilmente dell'intera discografia, sicuramente della prima parte della loro carriera. Il mancato successo desiderato non ha però frenato la scalata verso la vetta e i Bon Jovi si rifaranno due anni più tardi con “Slippery When Wet”, uno dei capolavori inossidabili della storia dell'hard rock e definitivo lasciapassare per il gotha della musica.

Ad oggi “7800° Fahrenheit” è l'album meno venduto nella parabola dei Bon Jovi: se però pensiamo che la cifra di cui parliamo supera i 2,5 milioni di copie ci rendiamo conto della grandezza e della fama della formazione originaria del New Jersey, tra le più grandi di sempre a livello globale. Questo non si discute.



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