Stratovarius
Polaris

2009, Edel
Power Metal

Primo disco degli Stratovarius senza Timo Tolkki: fallimento o successo?
Recensione di Davide Panzeri - Pubblicata in data: 16/06/09

A quattro anni dall’ultimo omonimo album, “Stratovarius”, la band finlandese torna sul mercato metallico col nuovo lavoro intitolato “Polaris”.
Molti di voi conosceranno già le vicende che nel corso degli ultimi sei anni, dal 2003 al 2009, hanno funestato i musicisti, ma è bene riprenderle per fare finalmente chiarezza e porre fine a queste brutte e tristi pagine della storia Stratovarius.


Poco tempo dopo l’uscita di “Elements Pt II”, voci su divergenze interne hanno cominciato a trapelare dalla band, in maggior parte esposte dal leader storico della band, Timo Tolkki. Dall’altro lato vi erano Timo Kotipelto e Jorg Michael desiderosi di avere un minimo di spazio in più in fase di songwriting. Come se non bastasse, oltre agli scontri, si aggiunsero i malesseri fisici e psichici del chitarrista Tolkki, che altro non fecero che peggiorare la situazione. Tutti ricordiamo la penosa esibizione ad un recente Gods of Metal della band. Fredda, consumata e palesemente in procinto dell’ultima fermata. Ed in effetti fu così, la band si sciolse per qualche mese con sommo dispiacere dei fan di tutto il mondo, salvo poi tornare alla ribalta con un comunicato dove veniva ingaggiata al posto del buon Timo Kotipelto, una semi sconosciuta Miss K. Ingaggio che finì a tarallucci e vino, con la finale decisione di Tolkki di ri-sciogliere la band. Gli Stratovarius non avevano motivo di esistere senza l’altro Timo, Jorg, Jens e Lauri Porra.
Dopo altri mesi di veri e falsi comunicati, la band decide di tornare di dare alla luce “Stratovarius”. Album che definirei il punto più basso della loro carriera.
Beh, per lo meno sono tornati assieme direte voi. E invece no, le peripezie e la malattia di Tolkki continuano a tal punto da portarlo a firmare un contratto con un’altra casa discografica e a fondare una nuova band, i “Revolution Renaissance”. I restanti membri non la prendono bene, si ritrovano con un contratto da risolvere e con svariati euro di debiti, decidono quindi all’unanimità di proseguire senza Tolkki (mantenendo il monicker Stratovarius grazie a una lettera di concessione dei diritti e dei ricavi scritta di proprio pugno da quest’ultimo) e di assoldare Matias Kupiainen in pianta stabile alle chitarre.


Giungiamo infine ai giorni nostri e a “Polaris”. Le aspettative attorno all’album sono molte, i fan, curiosi di sapere quali risvolti musicali avesse intrapreso la band, sono smaniosi di possedere il CD. I detrattori, invece, continuano a sostenere l’idea che il gruppo avrebbe dovuto sciogliersi punto e basta.


Ad ogni modo, volenti o nolenti, “Polaris” è finalmente disponibile. Ricordo ancora l’inverno di svariati anni fa, quando per la prima volta mi avvicinai agli scandinavi, ed in particolar modo al capolavoro che fu “Visions”. Le emozioni che mi regalò sono indescrivibili, perfetto sotto ogni punto di vista, ed è per questo che ogni volta che mi accingo ad ascoltare un nuovo lavoro, la mia mente viaggia inesorabilmente a ritroso a quel lontano inverno, speranzosa di ritrovare una band in forma, ispirata e, perché no, coraggiosa dal punto di vista musicale.
“Polaris” è sostanzialmente questo, un buonissimo cd di Stratovarius old style, e di nuove sperimentazioni.
L’andazzo è messo immediatamente in chiaro con l’opener “Deep Unknown”, dove i nostri, per una volta, abbandonano la classica song “sparata a mille” di apertura, in favore di un brano più elaborato e cadenzato. Le tastiere di Jens marcano in maniera distinta tutta la traccia e il risultato è più che piacevole. Ci si aspetterebbe quindi il cambio di ritmo con la successiva “Falling Star”, ed invece non è così. Anche il secondo brano è un mid-tempo che fa del suo punto forte il refrain cantato da Timo (come la maggior parte dell’album ovviamente) e dall’introduzione di nuovi suoni di synth che lo caratterizzano maggiormente. I tanto fedeli ed abusati clavicembali entrano in scena in “King of Nothing”, onestamente il brano più brutto dell’album. Il titolo probabilmente descrive appieno il contenuto della canzone.
“Blind” è la prima di tre canzoni che faranno la felicità di chi chiedeva un ritorno alle origini. Assieme a “Forever Is Today” e “Higher We Go”, sono completamente quello che i fan attendevano da tempo e che non hanno avuto dagli ultimi album. Doppio pedale a iosa, chitarre al fulmicotone e acuti al limite degli ultrasuoni. Onestamente le tracce non sono originalissime, qualche scopiazzatura da brani capolavoro di “Episode” e “Visions” c’è, ma tutto sommato non gliene si può fare una colpa. I ritornelli sono una bomba a orologeria, una volta ascoltati e assimilati, non si leveranno più dalla testa.
Di mezzo a questo trittico si presenta “Winter Skies”, semi ballata dai toni struggenti e, francamente, molto ma molto apprezzata dal sottoscritto.
“Somehow Precious” prosegue sulla stessa linea guida tracciata da Winter Skies, anzi, probabilmente è da classificare come prima delle due ballate. Pezzo molto Kotipeltiano (chi ha sentito i suoi cd da solista sa di cosa parlo), lineare e canonico che nulla ha da aggiungere o togliere al risultato finale.
Il songwriting, ormai non più esclusiva di Tolkki, è affidato a tutti i membri della band, e giungiamo quindi ai due lavori del giovane bassista Lauri Porra. Con le due “Emancipation Suite” parte uno e due, gli Strato approdano a nuovi lidi stilistici e musicali, mettendo da parte per qualche momento le sonorità classiche e barocche che li hanno sempre contraddistinti. Il risultato è più che lodevole, sebbene in più passaggi mi abbiano ricordato molto Babylon dell’album “Episode”. Di buono spunto i duetti con assoli di Jens alla tastiera e Matias alla chitarre. Menzione al nuovo chitarrista: non fa rimpiangere Timo Tolkki ed esegue un egregio lavoro. Insomma, i finlandesi non potevano chiedere di più.
“When Mountains Fall”, che ha il compito di chiudere l’album, è la ballata strappalacrime a cui ci hanno abituato tanto bene. Archi, chitarra e la voce di Timo sono gli unici strumenti presenti. Non sarà di certo encomiabile come alcune ballate capolavoro passate (qualcuno ha detto Forever?) anche perché purtroppo le ricorda in maniera nemmeno troppo velata, ma esegue perfettamente il lavoro assegnatole, concludendo degnamente l’album lasciando aleggiare un pizzico di malinconia mista romanticismo.


Tirando le somme, “Polaris” è e non è. Alterna saggiamente momenti classici a momenti alternativi ed innovativi, lasciando probabilmente contento qualcuno e scontento qualcun altro. Ma tant’è, posso ritenermi sufficientemente soddisfatto dal lavoro e attenderò impaziente la loro calata italica, nel prossimo gennaio, per mettere alla prova le nuove canzoni in sede live. Nel frattempo gustiamocelo assieme, senza tanti fronzoli in attesa della prossima uscita discografica.





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