Steve Hackett
Spectral Mornings

1979, Charisma Records
Prog Rock

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 03/12/11

Partiamo da una premessa: commentare la discografia dei cosidetti mostri sacri del rock è un po’ come parlare dei massimi sistemi, un'arma a doppio taglio per cui inevitabilmente si corre il rischio di scadere nella banalità. Beatles o Rolling Stones, Queen o Pink Floyd, trattasi sempre di materiale da maneggiare con molta cura. Parli dei Genesis e qualsiasi riferimento corre inesorabile al genio di Peter Gabriel e Phil Collins, due artisti che non si sono limitati ad apportare un contributo decisivo alla musica del gruppo, ma ne hanno tracciato la direzione musicale per oltre vent’anni. Scandagliando invece quell’autentico mare magnum della cosidetta discografia parallela alla band il discorso non cambia, la figura carismatica dei due vocalist prende il sopravvento su tutti gli altri; le magistrali intuizioni del Tony Banks di “A Curious Feeling” o l’appeal commerciale di Mike (Rutherford) & The Mechanics ahimè rimpiccioliscono di fronte alle patinate produzioni di “Us” o “…But Seriously”, ma è sopratutto il genio di Steve Hackett a passare sotto silenzio. Da sempre refrattario a qualsiasi concessione verso lo star system, il taciturno chitarrista londinese è stato decisivo per il sound dei Genesis al pari dei suoi illustri compagni: come dimenticare i delicati pastorali di “Harlequin” e “Horizons” o l’epica cavalcata di “The Musical Box”, indimenticabili espressioni di un virtuosismo così lontano dall’autoreferenzialità del prog moderno. Nell’arco di sei dischi le mani magiche di Steve Hackett hanno forgiato uno stile chitarristico capace di sintetizzare in un unico stile rock, folk tradizionale e musica classica. “A Trick Of The Tail” lo aveva consacrato potenziale leader del gruppo e aveva convinto persino i fan più intransigenti che, forse, anche senza Peter Gabriel un altro mondo era possibile, ma ogni speranza fu resa vana dal controverso “Wind & Wuthering”, disco di buon livello in cui iniziavano a delinearsi  le prime crepe interne al gruppo.  La svolta era dietro l’angolo ed Hackett, ormai al culmine della sua creatività a cavallo fra il classico e il barocco, decide di mettersi in proprio.

Il debut “Voyage Of The Acolyte” vede la luce mentre Steve è ancora nel periodo Genesis; niente lasciava presagire ad uno split, al punto che Phil Collins e Mike Rutherford furono ben lieti di aiutare l’amico nelle registrazioni del disco. Era chiaro già a tutti che Hackett era in grado di lasciarsi alle spalle il passato grazie alla sua ecletticità e ad una spiccata attitudine sperimentale con cui si apriva a nuove soluzioni (vedi l’uso di mellotron e sintetizzatori). Lascia definitivamente la band e pubblica l’interlocutorio “Please Don’t Touch”, un disco ricco di collaborazioni importanti che pone le premesse del suo indiscusso capolavoro. Con “Spectral Mornings” Hackett confeziona l'album della vita che gli frutterà anche una certa notorietà, portandolo dritto alla posizione n.22 delle classifiche inglesi; non solo, “Spectral Mornings” è senza ombra di dubbio l'opera più carismatica e affascinante della sua discografia, in cui tradizione e sperimentazione danno vita a un connubio sonoro di altissimo livello. Non credo di esagerare se oso definire “Spectral Mornings” come uno dei dischi rock defintivi degli anni ’70. Non c’è quasi niente di convenzionale in un album come questo. “Everyday” si apre con un tradizionale riff di tastiere e un chorus rassicurante salvo poi decollare in una coda solista di altissimo livello, non tanto (o non solo) per il livello tecnico. Con la successiva “The Virgin And The Gipsy” il lato mistico si fonde con il syntehtizer in un pezzo d’atmosfera che potrebbe essere la colonna sonora per una passeggiata attraverso le brughiere inglesi. Un classico del repertorio di Steve. Fin quì la sintesi perfetta delle esperienze passate, la rassicurante premessa di un disco che assume da questo momento in poi forme assolutamente imprevedibili. Il genio di Hackett  si manifesta con “The Red Flower Of Tachai Blooms Everywhere” una solenne melodia orientale che sfocia in maniera del tutto naturale in “Clocks”: il ticchettio dell’orologio rimanda inevitabilmente a “Time” dei Pink Floyd ma il pezzo è arricchito da un angosciante tappeto di moog stoppato da un prepotente break di chitarra solista nella parte centrale. E' la fantasia a guidare Steve Hackett in una canzone come “The Ballad Of The Decomposing Man”, bizzarra bossanova filtrata di mille diavolerie, dai vocoder ai sintetizzatori. Si torna ad una dimensione più intimista con “Tigermoth”, ballad sperimentale caratterizzata da particolari melodie vocali, mentre “Lost Time In Cordoba” è un delicato madrigale che pare soffiare direttamente dalle aride colline dell’Andalusia. E’ la quiete prima della cavalcata finale: “Spectral Mornings”, è il brano manifesto del disco, di Steve Hackett e forse del rock progressivo, il brano che John Petrucci avrebbe voluto scrivere se non fosse troppo innamorato del suo strumento. Un brano che è pura magia, impossibile definirlo altrimenti.

Il chitarrista londinese negli anni successivi proseguirà con grande coerenza sulla strada della sperimentazione e della libertà artistica, alternando lavori eccellenti a dischi discutibili, comunque parecchi gradini sotto questo album spettacolare. A distanza di anni “Spectral Mornings” resta un vero masterpiece, ben più  seminale e innovativo di quanto possa sembrare ad un rapido ascolto; un'opera da riascoltare ed apprezzare più che mai, per dirla con la consueta banalità con cui si trattano i Mostri sacri del rock. Quelli con la emme maiuscola.



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