Nirvana
In Utero

1993, Geffen Records
Grunge

Ruvido, abrasivo, rabbioso: l'ultimo tentativo di catarsi tramite musica di Kurt Cobain.
Recensione di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 04/04/13

Teenage angst has paid off well
Now I'm bored and old


Che la rabbia giovanile avesse pagato bene era palese: a pochi mesi dalla sua pubblicazione, “Nevermind” aveva venduto milioni di copie in tutto il mondo e scalzato dalle vette delle classifiche un mostro sacro delle charts planetarie come Michael Jackson. Le urla annoiate e rabbiose di “Smells Like Teen Spirit”, l’esplosione d’aggressività di “In Bloom”, la morbosa e deviata dolcezza dell’aguzzino di “Polly”, l’onirica felicità catatonica di “Lithium” avevano portato i Nirvana a farsi inaspettati portavoce di una generazione X che i sociologi dell’epoca si divertivano un po’ cinicamente a definire come spaesata perché priva di punti di riferimento e valori ben precisi. Dopo centinaia di concerti, stress, eccessi, Kurt Cobain era tuttavia sul punto di mollare tutto e chissà poi cosa fare. La nascita della figlia Frances Bean avuta dalla moglie Courtney Love è l’evento che dona quella spinta sufficiente a far tornare sui propri passi il biondo cantante grunge, lo spunto per comporre, soprattutto registrare un album esattamente come è nei suoi piani, nella sua mente.


Non che “Nevermind” avesse completamente deluso Cobain e soci, anzi: al di là del grande sputtanamento di “Smells Like Teen Spirit”, nella band tutti erano fieri delle canzoni contenute nell’album, ma quel che non è mai andato giù a Cobain fu la produzione bombastica e patinata. Ottima perché riuscì a coniugare furia punk e melodie squisitamente pop entro un unico sound robusto, pessima perché donava al tutto un senso di artificiosità distante anni luce da quel che invece il terzetto proponeva sopra i palchi prima dei piccoli club, poi dei festival mondiali più importanti. Ecco perché “In Utero” nasce da un approccio e da prospettive completamente diversi: registrato e mixato in sole due settimane, salvo poi tornare in studio giusto per qualche sovra incisione di cori e qualche altra chitarra acustica in “Heart-Shaped Box” e “Pennyroyal Tea”, a capo della produzione c’è Steve Albini, già all’epoca guru della scena underground e famoso per i suoi metodi di registrazione poco ortodossi (la sala di registrazione letteralmente invasa da microfoni per captare tutti i suoni possibili), talmente poco ortodossi che successivamente Cobain avrà da ridire su alcune scelte. Particolare anche la volontà di inserire il violoncello in alcune composizioni, per la precisione in “All Apologies” e “Dumb”, e di attuare una stesura di testi più chiara ed organica rispetto al passato, espressione della necessità di Cobain di sfogare il più possibile le proprie tensioni, le proprie paure, le proprie incertezze e sensazioni più di quanto non avesse potuto e dovuto fino a quel momento. Testi delle volte fin troppo espliciti, almeno per l’etichetta discografica, come nel caso di “Rape Me”: un invito sarcastico ad abusare, a violentare l’artista per sfruttarlo fino all’ultima goccia. Uno “stupro artistico” che però poteva esser facilmente mal interpretato e mal visto dalla società perbenista americana (chissà quanto sudarono freddo i direttori artistici degli EMA del 1992 quando Cobain accennò alla chitarra proprio la canzone incriminata subito prima dell’esecuzione di “Lithium”).


“In Utero” vede luce sugli scaffali dei negozi di musica nel settembre del 1993 non senza titubanze dalla Geffen. Anzi, più che di titubanze si dovrebbe parlare di veri e propri timori, tanto erano insicuri i piani alti dell’etichetta della effettiva decenza e pubblicazione del disco. Al solito, la lungimiranza della dirigenza si è prontamente scontrata contro gli effettivi risultati: benché sia in un certo senso l’esatta nemesi di “Nevermind” (suoni definiti contro l’abrasività a livelli quasi atroci, l’esser radio-friendlly contro l’impatto decisamente più vicino alla scena indipendente dell’epoca), nonostante sia stato scelto un singolo anomalo come la schizofrenica “Heart-Shaped Box”, nonostante la copertina raffigurante un modellino anatomico piuttosto inquietante sia stata contestata da molte catene di distribuzione, il terzo album della band di Aberdeen riceve consensi un po’ ovunque dal punto di vista della critica. Riceve altresì un’accoglienza spiazzata da parte del pubblico: ai concerti di presentazione dell’album, nel momento in cui sul palco compariva il violoncello e partivano canzoni come “Dumb” o “All Apologies” i presenti rimanevano un po’ intontiti, tanta era la sorpresa per quell’intermezzo che rendeva impossibile l’altrimenti scontato pogo di un’ora e mezza dei tour precedenti.  È un album bipolare, nel vero senso psicologico del termine: c’è una rabbia così repressa, così desiderosa di sfogarsi, da rendere le chitarre così abrasive, le urla tali da saturare il suono della voce, eppure si percepisce anche la necessità, la volontà di smorzare i toni in più occasioni con brani quasi acustici, ancora più malinconici di quelli scritti per “Nevermind”; la rabbia c’è ancora, ma anziché essere di reazione, ora ha profonde sfumature di rassegnazione, sfumature che con indecente naturalezza riescono a far convivere nello stesso disco la follia cacofonica di “Tourette’s” e la struggente melanconia di “Pennyroyal Tea”, la frustrazione di “Rape Me” e l’ultimo, deridente raggio di luce di “All Apologies”.


Parlando di vendite, “In Utero” non bisserà il successo di Nevermind, e come già detto spiazzerà non poco il pubblico. Parlando invece dell’aspetto contenutistico e testuale, è quanto di più introspettivo e personale ci si potesse aspettare da Cobain. Non è più rabbia giovanile o disprezzo condivisibile e generalizzabile per tutti, non c’è più la possibilità di divenire (involontariamente) un manifesto generazionale, quanto piuttosto la personale necessità di dare sfogo ad un disagio individuale, un estremo tentativo di non implodere. Sfogo e disagio che possono essere magari compresi, ma di certo non generalizzabili.


Ultimi strepiti prima della perdita del controllo, un ultimo tentativo di canalizzare e nella musica il proprio malessere per una tanto (in)sperata catarsi. Un ultimo lascito prima di svuotarsi, prima di perdere interesse persino nelle prove per il nuovo materiale (“You Know You’re Right” non fu completata al 100%. Nel 2002 fu pubblicata dopo una serie di accorgimenti). “In Utero” non ha la sfrontatezza di voler piacere a tutti, ma di certo non è un album che passa inosservato né inascoltato, nel bene e nel male. La prova del tempo l’ha ampiamente dimostrato.





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