Sesta prova in tredici anni di attività per una delle formazioni del panorama Teen-Rock internazionale più predisposte al cambiamento e all'evoluzione, la stessa che contraddistingue tutti gli artisti della Decaydance Records, casa discografica di cui i Panic! at the Disco costituiscono insieme il cuore e il prodotto più vincente. Seguito di Death of a Bachelor (2016), "Pray for the Wicked" è il raggiungimento di un risultato auspicato dai fan e realizzato dalla band: riportare chi ascolta a ballare. E allora arrivano "(Fuck A) Silver Lining", "Say Amen (Saturday Night)" e l'ultima "High Hopes", autentiche hit - per come le intende il mercato americano - che riportano la band nelle posizioni per cui è stata progettata per competere.
‘Dancing's Not A Crime'? Chiedetelo ai Panic! at the Disco, che in un mondo che spinge tutti ad aumentare, ad avere di più, riescono nella non facile missione di resettare i propri mix e a selezionare accuratamente poche - ma buone - basi da cui ripartire. Struttura dei brani, ritmo e sorrisi sono una conferma di quanto la band aveva costruito fino a Death of a Bachelor, album non brillante soprattutto a causa dei concetti espressi. Ma a tutto c'è una soluzione: ballano i pensieri, gli umori, gli amori, e ad un certo punto accade qualcosa.
"Every face along the boulevard
Is a dreamer just like you
You looked at death in a tarot card
And you saw what you had to do".
È alla fine del disco che i Panic! at the Disco introducono l'analisi di argomenti per certi aspetti lontani dalla musicalità del gruppo. Di fallimento, di buio, si parla anche di suicidio, in un mondo in cui non si balla più e c'è silenzio per poter pensare. Da Las Vegas - città di origine della formazione e residenza del leader Brendon Urie - a Los Angeles - città fondamentale per la crescita del progetto e in cui Urie deve aver trascorso più di qualche weekend - il passo è breve: poco meno di quattro ore di auto. Quanto basta per un profondo respiro e iniziare a proporre storie reali, come quella del dolore, un capitolo che ci tocca tutti. Brendon Urie è un autentico ‘King of the Clouds' che dal cielo scende in terra a recuperare il contatto con la realtà che negli ultimi anni era venuto meno: lo fa con una sensibilità unica e con l'umiltà del grande artista che sa leggere la realtà che vive e descrive, che torna sui suoi passi, che segna il sentiero sicuro nel pericolo. Ecco perché è più bello riaccogliere i Panic! at the Disco. Ecco il perché dell'ultima traccia del disco: si scrive ‘Dying In LA', si legge ‘maturità'.