Black Stone Cherry (John Fred Young, Jon Lawhon)

Una delle loro canzoni più famose si intitola "In My Blood", "è nel mio sangue", è parte di me. E dopo aver avuto l'occasione di incontrare nei piccoli camerini dei Magazzini Generali John Fred Young e Jon Lawhon, l'abbiamo capito ancora più lucidamente: tutto questo fa parte dei Black Stone Cherry, è nel loro sangue. L'accendersi come benzina al fuoco nel parlare della propria musica, l'umiltà nel rivolgersi ai propri fan come fossero fratelli e il desiderio bruciante che il business musicale smetta di essere un sogno dal sapore amaro. "It's in my blood and it's in my bones / in my heart and it's in my soul". 

Articolo a cura di SpazioRock - Pubblicata in data: 20/10/14

Intervista a cura di Mia Frabetti e Paola Marzorati.


I Black Stone Cherry sono prova vivente del fatto che la passione e il duro lavoro ripagano sempre e che, se ami ciò che fai, il successo arriverà di conseguenza. La sensazione, ascoltando “Magic Mountain”, è che di recente siate diventati ancora più sicuri di voi stessi, e che abbiate definitivamente smesso di preoccuparvi delle aspettative sul vostro conto. D’altro canto, avete ammesso più volte – anche in una precedente intervista con SpazioRock – di esservi sentiti parecchio sotto pressione durante le registrazioni di “Between The Devil And The Deep Blue Sea”. Guardandovi indietro, c’è qualcosa che cambiereste di quel disco, se ve ne fosse data la possibilità?


bsc_intervista_2014_00_600JOHN FRED: Al momento di entrare in studio per registrare “Between The Devil”, non avevamo mai lavorato con un produttore intenzionato a creare un disco per le radio americane. Avevamo lavorato con mio padre e Bob Marlette (rispettivamente per “Black Stone Cherry” e “Folklore And Superstition”), ed entrambi avevano un metodo di lavoro… meno strutturato, in un certo senso. Avevano un approccio del tipo, “tutto quello che dovete fare è suonare, scrivere grandi canzoni e spaccare di brutto(ride). Arrivati al terzo disco, però, l’A&R della RoadRunner voleva fare di noi i nuovi Nickelback. E non poteva funzionare, perché per quanto ci piacciano i Nickelback noi non siamo i Nickelback, capisci cosa intendo? Non c’è bisogno di un’altra band come loro, perché esiste già; l’unica cosa da fare era essere noi stessi. Il nostro produttore (Howard Benson) ha fatto del suo meglio – ci ha spinto a scrivere moltissime canzoni in collaborazione con altri autori, e questo ci ha aiutato a migliorare il nostro songwriting. “Between The Devil And The Deep Blue Sea” ci ha portato un sacco di cose buone… Ma durante le sessioni di registrazioni avvertivo come un senso di oppressione. Per me è stata davvero dura, come batterista, perché il mio stile è… sai…

JON: (si lancia in un’imitazione di John Fred alla batteria, scuotendo i capelli e demolendo un kit immaginario) Siamo onesti, amico! (risate generali)

JOHN FRED: Esatto, quindi per me è stato difficile attenermi a quanto mi veniva richiesto. Voglio dire, è facile suonare dei beat elementari, ma c’è tutta una serie di minuzie tecniche – roba davvero intricata tipo le note morte – durissime da suonare. E non appena ci riuscivo, venivano rimaneggiate con Pro-Tools e… (sospira frustrato).

Jon: Come bassista, non mi sono mai sentito dare così tanti ordini come durante le registrazioni del nostro terzo album. Onestamente, era noioso.

JOHN FRED: Una noia mortale. Le canzoni – “In My Blood, “White Trash”, “Boom Boom” – erano e rimangono grandiose, ma se mettete a confronto la versione su disco con quella live ascolterete due pezzi completamente diversi. Nella versione dal vivo c’è molto più cuore, molta più anima. Ma non rinneghiamo nulla, le registrazioni del terzo disco sono state una grande opportunità di crescita.

JON: E il clima in California non fa certo schifo (ride).

JOHN FRED: Il punto è che non si finisce mai di imparare. Per quest’ultimo disco abbiamo lavorato con Joe Barresi, ed è stata tutta un’altra musica. Abbiamo potuto creare un sound che fosse solo nostro, senza alcuna intromissione esterna, qualcosa che non avevamo mai sperimentato prima. E ci sono stati grandi cambiamenti anche nel music business – la RoadRunner è stata assorbita dalla Warner/Atlantic, e la maggior parte delle persone con cui avevamo lavorato sino a quel momento hanno perso il posto. Solo cinque o sei di loro l’hanno mantenuto. Perciò a lavorare su “Magic Mountain” è stato perlopiù lo staff dell’Atlantic, e il loro atteggiamento era completamente diverso. Sostanzialmente, ci hanno lasciati liberi di creare la nostra musica, di cercare la nostra voce.

JON: All’inizio, non riuscivamo a liberarci dell’impostazione mentale che ci aveva lasciato in eredità il terzo disco. Il risultato era che gli assoli erano molto più brevi di un tempo. E l’atteggiamento di Joe in proposito era, “Okay, grande. Ora prendete questo assolo e raddoppiatene la lunghezza”, oppure “Improvvisate su questa sezione finché non salta fuori qualcosa di grandioso”, anziché “Ehi, suonate questo e quest’altro”.

JOHN FRED: Joe ama davvero la musica. È difficile da spiegare a chi non ha familiarità con il music business, oppure ha appena fondato una band e sente la parola “produttore” per la prima volta… Anch’io, agli inizi, mi chiedevo cosa significasse. Cosa fa di preciso un produttore? Chi è? È diverso da un ingegnere del suono, perché un ingegnere è una specie di genio capace di ottenere il miglior sound di sempre per la tua band, mentre il produttore è il tizio che beve caffè in un angolo dello studio e se ne esce con domande tipo: “Eeehi, sai cosa? Non sono mica sicuro – che strumento è quello che hai in mano? Come si chiama? È una chitarra o un basso?” (risate generali) Ma è importante saper prendere il meglio da ogni situazione. Ogni disco ha i suoi aspetti negativi, cose che a conti fatti non ti piacciono o vorresti cambiare, ma devi guardare il lato positivo. Un metodo che funziona per altri può non funzionare per noi e viceversa. Ed è a questo punto che ci troviamo: abbiamo trovato un metodo di lavoro che funziona, siamo felici. Ma, al tempo stesso, rimaniamo aperti a nuove esperienze.

Quello che colpisce di voi è quanto poco vi curiate delle apparenze. Le persone che vediamo sul palco sono le stesse che potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni: ragazzi semplici, umili, alla mano. Come si rimane autentici, fedeli a se stessi, in un business che spesso di autentico ha ben poco?

JOHN FRED: Devi uccidere un sacco di persone (scoppia a ridere).

JON: Credo c’entri l’educazione che abbiamo ricevuto. Prima ancora di essere una band, siamo quattro amici. E abbiamo sempre lavorato sul nostro rapporto, forse anche più di quanto abbiamo lavorato sulle nostre abilità di musicisti. Ma, in tutta sincerità, se non fossi una persona onesta mia madre me le darebbe di santa ragione. Non ha mai smesso di farlo (ride). E questo vale per tutti e quattro. Siamo tutti così. I nostri genitori ci hanno cresciuto affinché diventassimo gentiluomini, brave persone, non degli stronzi presuntuosi.

JOHN FRED: Siamo nati e cresciuti in una piccola comunità in cui le buone maniere vengono considerate importanti. Credo che le nostre origini siano la ragione per cui siamo le persone che siamo.

 

 

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Il fatto di crescere in Kentucky, quindi, più che un limite è stato una fortuna?

JOHN FRED: Credo ci abbia motivati a dare il massimo, perché partivamo da una posizione svantaggiata. E in fondo nella nostra piccola città l’unica cosa che potevamo fare era chiuderci in sala prove e suonare. Volevamo vivere della nostra musica, e la strada per arrivare fin qui è stata lunga, ma abbiamo potuto contare sull’aiuto delle nostre famiglie. Sono stati loro a insegnarci come funziona il music business, come muoverci nell’ambiente, come ottenere e vendere merchandising. Crescere in aperta campagna è stata dura, perché non c’era una scena rock paragonabile a quelle di Los Angeles, New York o Chicago, ma al tempo stesso è stato bello, perché non abbiamo dovuto conformarci a un modello o a uno stile. In una grande città la competizione tra band è spietata, e devi per forza suonare un certo genere se vuoi arrivare a esibirti nei locali. Noi eravamo liberi di fare quel che volevamo e, soprattutto, abbiamo avuto fortuna.

Se ne aveste la possibilità – ora che sapete come funziona il music business – che consiglio dareste a una versione più giovane di voi stessi e a tutte le band che stanno lottando per realizzare il sogno di una carriera nel rock’n’roll?


JON: Non firmate un contratto discografico!

JOHN FRED: Ahh (ride), non firmate un contratto discografico! (ripete, imitando Jon, poi si fa serio) Oggi, rispetto a dieci anni fa, un musicista ha molte più possibilità. Ad esempio, può aprire un canale su Youtube. Ci sono milioni di persone che lo fanno, anche se questo ha portato alla saturazione del mezzo. Ormai per trovare qualcuno di notevole, una band eccezionale e diversa da tutte le altre, devi cercare tra centinaia di canali. Una volta che Lady Gaga ha successo tutti vogliono essere Lady Gaga, oppure Jessie J o il miglior chitarrista metal del mondo, no? È così che nascono le mode. Quindi non bisogna farsi ingannare da questi meccanismi, e andare per la propria strada.

JON: Probabilmente il mio consiglio sarebbe di siglare un contratto relativo alla sola distribuzione. Oggi le band non hanno bisogno di un’etichetta per scrivere e registrare un album, possono fare tutto da sole, assumere personalmente i propri collaboratori, e solo in un secondo momento cercare una casa discografica che ne curi la distribuzione, meglio se un grande nome come la Sony. In pratica, ci si può presentare all’etichetta con un prodotto finito, e firmare un accordo basato su quell’album e quell’album soltanto. A questo punto, la casa discografica o l’ente di distribuzione ritira l’album, ne produce grandi quantità e lo rende fisicamente reperibile nei negozi, ma non si occupa della sua promozione. Il marketing è compito tuo, il che potrebbe sembrare spaventoso, ma in questo modo puoi guadagnare dieci volte tanto rispetto a un artista sotto contratto con una casa discografica. Il più delle volte avere un’etichetta significa solamente perdere denaro: sei tu a pagare i loro voli in prima classe, quando poi, in realtà, questi viaggi diventano un pretesto per incontrare altre cinque band oltre alla tua. Le case discografiche hanno modi meravigliosi di usare il tuo gruppo contro di te per poter fare sostanzialmente quello che vogliono… È un quadro abbastanza oscuro (ride amaramente).

 

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Pensate che la popolarità dei VIP packages sia un riflesso della crisi dell’industria musicale? E, cosa più importante, gli artisti hanno una qualche voce in capitolo?

JON: Noi non abbiamo mai fatto meet and greet a pagamento, mai. Ci siamo sempre rifiutati. Ma moltissime band li fanno e sinceramente…

JOHN FRED: E’ una cazzata.

JON: Non siamo assolutamente d’accordo. Molti tra i nostri amici li vendono (i pacchetti VIP), ma non per questo abbiamo cambiato idea. Andiamo, non basta che i vostri fan abbiano già comprato dischi, merchandising, biglietti per i concerti e iscrizioni al fan club? Ora volete addirittura che paghino per stringervi la mano? Perché, siamo onesti, è così che funziona: i tuoi fan se ne stanno in fila uno dietro l’altro, tu firmi un poster o addirittura neanche quello se all’ingresso hanno già ricevuto un gadget autografato, e allora ti limiti a stringere qualche mano e dire “è un piacere conoscerti”. Dopodiché i tuoi fan escono dalla stanza, e tu hai appena guadagnato diverse centinaia di dollari. È assolutamente ridicolo.

JOHN FRED: Gli unici pacchetti che vendiamo – e che all’inizio non volevamo neanche prendere in considerazione – sono quelli early entry, con cui sostanzialmente puoi avere una maglietta, un oggetto autografato e l’entrata anticipata allo show. Ma in principio eravamo contrari anche a questo perché non volevamo che i nostri fan pagassero per un posto in prima fila per poi – non so – dover andare in bagno e non poter più tornare indietro. Per cui sì, vendiamo questi biglietti, ma per quanto riguarda i fan club e tutto il resto… è un business ridicolo. Giusto l’altra sera discutevamo con il ragazzo che si occupa del nostro merchandising riguardo al prezzo delle magliette e delle felpe. Stiamo suonando dei grandi show qui (in Europa), poi ci aspettano i palazzetti e le arene del Regno Unito… E siamo circondati da sanguisughe. L'ultima volta che sono stato a un concerto neppure io potevo permettermi di comprare una maglietta, che oggi costa qualcosa come 55 dollari. Tutto quello a cui riesco a pensare è che è una cosa da pazzi. Siamo probabilmente una delle poche band che  non vendono pacchetti VIP. Voglio dire, sono sicuro che ce ne siano anche altre, ma nella cerchia di amici e conoscenti con cui solitamente andiamo in tour, siamo molto rispettati per questo, per non far pagare i fan per ammetterli al nostro cospetto (ride).

Quindi una band può rifiutarsi di vendere questi pacchetti VIP o ci sono delle situazioni in cui è obbligata ad accettare?

JON: Ci sono alcune situazioni particolari, legate soprattutto alle band emerse negli ultimi anni. Ora nel music business esiste un particolare accordo chiamato contratto a 360 gradi, che costituisce una rettifica dei contratti discografici standard. Le nuove band che si affacciano sul mercato musicale, ormai, non hanno più la possibilità di firmare un contratto vecchia maniera: il massimo in cui possono sperare è un contratto a 360 gradi. Funziona in questo modo: il 50% di tutto il ricavato della band – dalla vendita del merchandising a quella dei biglietti, dal songwriting ai diritti editoriali, tutto – finisce nelle tasche della casa discografica. Sono degli avvoltoi, ti strappano tutto ciò che possono. Per cui, il più delle volte, la vendita di pacchetti VIP è già inserita nei contratti preparati per le band più giovani, e loro non hanno scelta. Il mio consiglio è di non giudicarle in base a questo, perché è probabile che la casa discografica avesse predisposto tutto sin dall’inizio. Da Napster in poi, sono state solo le band a rimetterci. Le case discografiche non hanno mai perso nulla perché hanno cominciato a siglare contratti a 360°, con tutto quel che comportano, per coprire le perdite causate dalla crisi del mercato discografico.

JOHN FRED: [Le case discografiche] hanno dovuto trovare nuovi modi di sfruttare gli artisti, dal momento in cui gli album hanno smesso di vendere.

JON: Ma al tempo stesso questa rimane un’era in cui è possibile registrare un album nel proprio garage, con una qualità del tutto simile a quella che si può ottenere in uno studio pagato milioni di dollari. Le band possono firmare accordi relativi alla sola distribuzione – ne abbiamo parlato prima – e, se sono abbastanza intelligenti, possono riuscire a guadagnare dieci volte tanto rispetto a una band legata a un'etichetta. Sempre più musicisti stanno imparando la lezione e le case discografiche, lentamente ma inesorabilmente, si ritroveranno in ginocchio. Ne sono sicuro.

JOHN FRED: Parli come un anarchico!

JON: Potrei persino tatuarmelo, amico (ride).

 

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Ma nonostante tutto – la crisi del music business, i problemi legati alle case discografiche – vale ancora la pena lottare per i vostri sogni, giusto?

JOHN FRED: Assolutamente sì. Per i fan.

JON: C’è una fila di persone che stanno aspettando qui fuori da… Non so neanche da che ora del mattino. Io mi sono svegliato alle due del pomeriggio, e c’era già una fila lunghissima!

JOHN FRED: Sono queste le cose per cui vale davvero la pena lottare: la possibilità di creare la propria arte e condividerla con persone che la amano, come la fanbase italiana.

JON: Non dobbiamo timbrare il cartellino prima di andare al lavoro. Non c’è nessun (finge di inserire il cartellino per timbrarlo e ne imita il suono) “Sono qui per lavorare, grazie”.

JOHN FRED: E’ assolutamente grandioso. Siamo i ragazzi più fortunati del mondo. Abbiamo la possibilità di fare quello che amiamo: suonare musica per persone che la apprezzano.

JON: Ma ormai, se devo essere onesto, non c’è mattina in cui ci alziamo e non pensiamo a quanto vorremmo liberarci della nostra casa discografica.

JOHN FRED: Sì, ma i nostri fan non dovrebbero preoccuparsi di questa merda. Semplicemente ci piace lamentarci delle battaglie che dobbiamo affrontare tutti i giorni (ride).

Quindi state considerando l’idea di andare avanti senza una casa discografica?

JON: Per ora abbiamo un'etichetta e altri tre album da scrivere per contratto.

JOHN FRED: Abbiamo anche un manager, ma non ne sono molto sicuro… Si fa vivo di tanto in tanto (ride). Sai, ci capita spesso di parlare con artisti che non hanno pubblicato nulla negli ultimi anni, e dicono tutti le stesse cose: “la casa discografica è il male, il nostro manager è il diavolo”. È perché facciamo parte di un business – un business ingiusto. Gli artisti dovranno sempre spalare un sacco di merda. Per questo devono impegnarsi al massimo, essere parsimoniosi e al tempo stesso dare tutto sul palco per i loro fan, senza lasciarsi condizionare dai problemi con cui hanno a che fare. Noi, ad esempio, dobbiamo continuamente cercare soldi, assicurarci di averne abbastanza per fare questo e quello. Ma, alla fine, tolta di mezzo tutta questa spazzatura, sai che suonare sul palco è la parte migliore del tuo lavoro. È il dono più grande del mondo. Stasera siamo qui, pronti per suonare, e sappiamo già che canterete tutte le nostre canzoni, ed è per questo che vale la pena lottare, nonostante tutto. È questa l’unica cosa che conta.




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