Uriah Heep
Demons And Wizards

1972, Bronze
Hard Rock

Un disco che continua a ispirare generazioni di metal bands
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 02/09/16

Si respira l'aria delle occasioni perdute quando si parla di Uriah Heep, chissà perché poi: ritenuti da molti come i parenti poveri dei Deep Purple, Mick Box e soci hanno avuto la sfortuna di doversi ritagliare un posto al sole negli anni in cui Led Zeppelin, Black Sabbath e appunto Deep Purple la facevano da padrone. Mancavano una "Smoke On The Water" o una "Paranoid", brani simbolo da tramandare ai posteri, mancava anche la presenza iconica di un Robert Plant o un Ozzy Osbourne, magari il genio di un Ritchie Blackmore qualunque, ma tutto questo non ha impedito alla band londinese di avere un impatto enorme sulla scena heavy degli anni a venire. Parliamo dopotutto di una band con quasi cinquant'anni di carriera, fra le più prolifiche in termini quantitativi e qualitativi.
 
E' un affresco musicale difficile da descrivere quello degli Uriah Heep: melodico, compatto, quasi sempre racchiuso in pezzi di tre/quattro minuti, permeato di suggestioni psichedeliche e progressive, demoni e maghi, fantasy, sesso e religione. Allo stesso tempo però, la presa sull'ascoltatore è immediata: tutte le caratteristiche del loro stile erano già emerse nei primi tre lavori, dal debutto in profumo di sixties "Very 'eavy Very 'umble", passando per "Look At Yourself" e "Salisbury", opere che regalavano assieme alla già citata immediatezza, sprazzi di estro e poesia sulla lunga distanza (un solo titolo: July Morning). Gli Uriah Heep raggiungono il loro climax nel 1972 in concomitanza con alcuni, significativi avvicendamenti nella line up. Con l'arrivo di Gary Thain al basso (autentico funambolo che soffiò il posto a un certo Bob Daisley...) e Lee Kerslake (che finirà poi con Ozzy Osbourne) alla sezione ritmica, la band inglese acquista una maggiore solidità. E' Ken Hensley il vero deus ex machina del combo britannico: le sue partiture di Hammond sono il mastice che unisce il sound degli Heep sin dagli esordi, niente fughe né assoli disarmonici, bensì robusti tappeti che, incastrati ai riff di Mick Box, esaltano melodie dal gusto malinconico e solenne. "Demons And Wizards" è la quarta gemma consecutiva e il disco della consacrazione, anche a livello commerciale e include due hits fra le più celebri del gruppo, che contribuiranno a rendere loro una certa popolarità: "Easy Livin' " e "The Wizard" non sono solo i brani simbolo del disco, ma anche la dimostrazione pratica di come possa letteralmente straripare di contenuti brani della durata scarsa di quattro minuti. I vocalizzi solenni di David Byron si stampano subito nella mente dell'ascoltatore con tutta la loro eleganza; può persino permettersi di usare il falsetto in quel tripudio di wah wah a nome "Traveller In Time", spiccare il volo nel climax messianico di "Circle Of Hands", assumere toni minacciosi di "Rainbow Demon" per poi trionfare nel pathos della conclusiva "The Spell". Una voce tanto incantevole quanto sfortunata, anni dopo falcidiata dagli abusi e dalle droghe fino alla tragica scomparsa nel 1985.

Il linguaggio di "Demons And Wizards" costituirà un punto di riferimento essenziale per tutta la carriera della band inglese, pur nelle diverse forme assunte nell'arco di quarant'anni e ventiquattro dischi in studio. Fra discese nell'oblio, cali di popolarità e improvvise rinascite, oggi rimane il solo Mick Box a tenere in mano lo scettro di quella magica alchimia, mentre artisti come W.A.S.P., Blind Guardian, Gamma Ray, Axel Rudi Pell hanno tributato negli anni la musica degli Uriah Heep come fonte di ispirazione; l'incantesimo proseguirà per alcuni anni con la stessa formazione a partire dal successivo, clamoroso "The Magician's Birthday", che condivide con "Demons And WIzards" la firma di Roger Dean sull'artwork. Succederà soltanto un'altra volta, per il bellissimo "Sea Of Light" del 1995. Un'altra storia, appunto; ma pur sempre storia.




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