Li avevamo lasciati con “ABIII” e il conseguente carico di consensi e lodi che è sempre difficile riconquistare. Tre anni dopo li ritroviamo, più dinamici e determinati, consci del ruolo di riferimento che si sono ritagliati con classe nel grande quadro del Rock. La combinazione è sempre la stessa, il letale abbraccio tra la grande tecnica e la costante evoluzione delle corde brucianti di Mark Tremonti e la voce inimitabile ed emozionante di Myles Kennedy, che per ampiezza e intensità è già entrato di diritto nella classifica delle migliori ugole di questo genere così aggressivo, così penetrante da poter essere disciolto e trasformato nel suo canto denso.
Per il quarto album di studio, “Fortress”, gli Alter Bridge lavorano sodo. La dedizione e la cura dei particolari si riscontra anche nell’artwork: per la prima volta dopo tre grandi dischi quali “One Day Remains”, “Blackbird” e il già citato “ABIII” la copertina introduce una grande parabola. Una guerra? Un uragano? L’abbandono? Il deperimento silente della natura selvaggia? Non ci è concesso sapere quale sia la causa della distruzione della casa fotografata, ma il messaggio che si cela dietro un’istantanea tetra e deprimente è ben chiaro: niente dura per sempre, neanche la fortezza più solida. Pertanto, come dichiarato dallo stesso Mark ai nostri microfoni (leggi l'intervista), la vita va vissuta intensamente, inseguendo i propri sogni e godendo dei tanti sentimenti che ci propone, perchè prima o poi non ci sarà più permesso.
C’è sempre un che di apocalittico, per non dire mitologico, nell’invettiva di Kennedy e Tremonti, ed è proprio con il prode Achille che si apre la mistica scatola di “Fortress”: “Cry of Achilles”, con la sua variabilità, velocità ed inedita introduzione acustica, mette subito in chiaro quanta intensità possa scaturire nei minuti successivi. La mastodontica dolcezza inizia a propagarsi in un crescendo di toni e volumi che convince da subito: la tecnica e la complicità di ogni singolo elemento della band rende tutto molto semplice ed orecchiabile, ma un ascolto superficiale cela la grande fatica dell’ultimo anno. Tra suoni metallici smorzati dall’imprevedibilità delle dita fuse del Tremonti, il collante fiammeggiante è, ovviamente, la voce di Myles: ritornelli allungati e strofe veloci, per apprezzare il dilatarsi delle vocali e dei timpani. Quarta traccia, primo grande stacco melodico: con “Lover” viene lasciato ancora più spazio a Myles, che notoriamente nelle ballate dà il meglio di sé, svincolandosi tra dolci introduzioni e potenti giri in minore. L’immagine, la metafora fissa e incontrastata è sempre quella dell’arrampicata della sua voce attorno al manico granitico di Mark, e viene impreziosita anche dal bel duetto vocale in "Waters Rising". È questa idea che scaturisce i brividi sul finire del disco con “All Ends Well”, candidata a colonna sonora di un film titanico grazie a bridge e chorus impressionanti, il saluto più bello prima della conclusiva title-track, che va a chiudere un disco eccellente, in cui la sostanza primaria è la passione, percorsa in tutte le sue forme, che emerge nei testi come un invito a decollare da questa landa desolata di paura e paranoia chiamata terra.
“Fortress” appassionerà i seguaci di un gruppo ormai consolidato e prossimo alla storia, divertirà i musicisti di ogni dove che si avvicineranno alle sue tablature, e non oso immaginare cosa scaturirà riproposto in chiave live nei vicini concerti di Milano e Roma. Tutto gira vertiginosamente attorno ai fratelli Kennedy e Tremonti, messaggeri di speranza e di forza benefica attraverso un sound che disintegra i vetri del razionale. La storia degli Alter Bridge è costruita su questo binomio passionale e su questi due uomini esperti e furbi, che ancora una volta si immedesimano in esploratori musicali, con l’entusiasmo di che vuole sorprendere e la coscienza di chi vive inseguendo un’emozione, riuscendo a sfiorarla senza possibilità di trattenerla.