Elvenking
Secrets of The Magick Grimoire

2017, AFM Records
Folk/Power Metal

Ben più che una suggestione, il riferimento ai Blind Guardian è generosamente evocato da un gusto per la misura che in ogni canzone esalta la ricchezza dell'essenza
Recensione di Marco Migliorelli - Pubblicata in data: 08/11/17

Ignoriamo l'origine esatta della parola ma ne conosciamo il significato: il grimorio è una grammatica del magico, un repertorio, più solennemente, un attestato di rottura delle regole di questo mondo, nell'ipotesi che ben altre lo leghino ad altre dimensioni. La magia, così come l'astrologia, si dispiega nell'immaginario a mezzo di connessioni elementali, corrispondenze rituali, evocazioni e coincidenze astrali, mentre la musica ne è la controparte moderna, in un secolo ad alta definizione, nitido fino all'accecamento ed interrotto in un eterno ritorno dell'immediatezza: "Sembra strano al giorno d'oggi, ascoltare un album dalla prima all'ultima canzone", scrive Aydan, prima chitarra dei friulani Elvenking, nella nota introduttiva al loro nono studio album, "Secrets of the Magick Grimoire". Fortunatamente magia e musica hanno in comune la possibilità di alterare il tempo nella percezione del sentimento: è così che un'epoca dorata può tornare a vivere. Gli Elvenking sanno dove tornare: gli anni '90 del metal hanno lasciato bagliori ben più vivi del sonno luminoso di una supernova. Erano anni nei quali Blind Guardian, Skyclad, Grave Digger, Iced Earth, Edguy, Angra e diverse altre band forgiavano l'archengemma di un decennio, sfornando capolavori che abbiamo consumato dall'inizio alla fine innumerevoli volte, e rigorosamente su cd e cassetta! Nel 2012 "Era" segnò il passo e chiuse un'epoca; il 2014 mise a tacere le critiche più irriducibili e ci restituì una band dall'immaginario straripante, con un album ben strutturato e generoso, "Pagan Manifesto". Ebbene "Secrets of the Magick Grimoire" è, ad oggi, un ritorno all'antico. Dopo ben 17 anni con AFM, figli degli anni '90, i bardi friulani si affacciano nello specchio rosso del proprio passato e convincono più dei Maestri di Krefeld qualche anno fa.

 

Un'ora di musica serrata gioca la carta vincente dell'equilibrio alternando la raffinatezza del violino alla potenza della sezione ritmica. Apre il disco un canticchiare teatralmente fiabesco, sul quale si innestano inserti orchestrali insolitamente epici, intrecciati ad una sciarada di voci bisbiglianti, prima dell'urlo della doppia cassa: "Invoking the Woodland Spirit" è quasi una evocazione programmatica oltre che una delle migliori opener mai scritte dal gruppo. Strofa furente, ritornello ipnotico, trascinante, un robusto lavoro di chitarre fino ad un pregevole duetto, ed una pluralità di voci corali che non abbandonerà quasi mai a se stessa la voce di Damnagoras. Questi i primi ingredienti di un lavoro maturo e compositivamente fedele a quell'elemento magico-narrativo-fiabesco ambiguamente catturato dal bellissimo artwork di Samuel Araya.

 

Di "Draugen's Maelstrom" si dirà ciò che è, un singolo-trappola, un sortilegio narrativo: con mestiere offre il lato più accessibile del sound, serbando gli assi nelle segrete degli altri brani. Il gusto per le atmosfere si incarna nelle rifiniture acustiche del finale, mentre una parte centrale avvia verso un azzeccato chorus da palco: "To believe/ The seas are dwelled by our fears"; sono le nostre paure ad agitare gli oceani del tempo ma è la musica a catalizzarle. Le sorprese iniziano a rivelarsi, con "The One We Shall Follow", brano decisamente più lento, nonostante l'andatura incalzante. Un pregevole assolo di batteria introduce un finale fiabescamente più "sinistro" con un gocciare di pianoforte che tradisce una cura diffusa per il dettaglio sonoro, aspetto sempre più vivido e prorompente nella seconda metà dell'album. "The Horned Ghost and the Sorcerer" è il secondo singolo e non è scelta casuale. La parte centrale è un break puramente acustico, medievaleggiante, per voce, chitarra e percussioni, sorvolati dal violino di Lethien. La controparte elettrica del brano è un flashback di "Heathenreel", la sua chiosa struggente la promessa che il loro album acustico, nel 2008, non era un binario morto: braci vive sotto le ceneri dunque? 

 

"A Grain of Truth" ci soffia sopra... lascia che il vento volti le pagine, fa perdere il segno: è uno dei brani meno accessibili e felicemente indefinibili del lotto. Partita a tre voci. Damna duetta finalmente col growling di Angus Norder, cantante di Witchery e Nekrokraft, ospite su ben 4 brani. Giocato su ritmiche veloci, la canzone si disperde in un bel solo di chitarra heavy metal, salvo riprendere in un duetto con voce femminile e un incedere più posato: è un vero e proprio cambio di atmosfera. "Secrets of the Magick Grimoire" è certo un disco equilibrato ma la sua essenza tematica punta molto sulle atmosfere ed i sussulti emotivi suggeriti dai testi e dalle loro immagini. Le orchestrazioni tendono sempre ad evidenziare la tensione narrativa dei singoli brani e sono opera principalmente di Jonny Maudling, Bal Sagoth, insieme ad Antonio Agate, già attivo con la band nei precedenti lavori in studio. Tuttavia, perderebbero molta della loro fascinazione senza la continuità del violino di Lethien, qui alla sua prova migliore e in un ruolo decisamente di maggior spicco.

 

Come in un disegno al carboncino, nella prima parte di questo nono album, gli Elvenking iniziano a sfumare i tratti più recenti e familiari del proprio sound con sempre maggior determinazione. Questo sfumare però non dissolve, piuttosto condensa il meglio dei nuovi Elvenking alle radici del proprio sound, ribadendo con forza il loro lato più folk e acustico. "The Wolves will be Howling your Name", sancisce il passaggio. L'inizio folkeggiante con batteria rocambolesca ed una strofa che strizza l'occhio ai migliori Skyclad, trapassa in un finale corale, solenne, spezzato da un assolo di chitarra struggente e prolungato. La chiosa, sorprendentemente lirica, è ancora effetto di quel "magico" realmente cercato, voluto e ottenuto a permeare ogni singola storia, ogni singola canzone. 

 

Da qui in poi l'album si fa poliedrico, insiste sulle sfaccettature del suono, lavora sulla diversificazione delle emozioni. "3 Ways to Magick" riporta l'ascolto su più aeree altezze anche grazie ad un chorus irresistibile ed un orientamento più power, pur senza perdere il gusto per la lentezza, mentre "Straight Inside Your Winter" apre alle melodie più intense e si avventura per cieli più cupi. Racchiusa fra due apostrofi di pianoforte, inquieta, dominata da voce e violino è una ballad che non avrebbe sfigurato su "Two Tragedy Poets".

 

Il preludio alla chiusura del viaggio è dato da un tuffo nel mistero. Un idioma sconosciuto, indecifrabile ed una datazione quasi certa sulla metà del '400 che avvicina la paternità del manoscritto a Poggio Bracciolini cercatore di classici e libri perduti fanno di "The Voynich Manuscript" uno dei libri più misteriosi al mondo, oltre che uno dei brani più affascinanti dell'intero cd. La chiusura che alterna chorus puliti e screaming mentre la batteria precipita nel blast beat è un salto temporale a piè pari nello scenario di "The Scythe", l'eccezione gotico-burtoniana in una discografia dipinta con ben altri colori. 

 

"Summon the Dawn Light" rasenta la leggerezza di un interludio. Sorretto dall'affiatamento delle chitarre, scorre senza incidere a fondo ma prepara al gran finale con la delicatezza di una fetta di zenzero. Con "At The Court of The Wild Hunt" gli Elvenking tornano ad affrontare, con misura, la tenzone del brano più lungo. Proprio come nella cover di "Somewhere Far Beyond" dei cari Bardi di Krefeld, torniamo a sederci attorno al fuoco insieme ad un altro ospite, Snowy Shaw, voce prestata a numerosi progetti musicali fra i quali il bellissimo "Gothic Kabbalah" dei Therion.

 

Ben più che una suggestione, il riferimento ai Blind Guardian è generosamente evocato da un gusto per la misura che in ogni canzone esalta la ricchezza dell'essenza. Una attitudine che ha portato i bardi tedeschi nell'olimpo del power metal e che conduce gli Elvenking ad una rinnovata maturità con un disco dalla spiccata anima folk ma capace anche di addentrarsi fra gli aspetti più inquietanti e fiabescamente tetri del proprio sound. Meno irruento di "Pagan Manifesto", "Secrets of the Magick Grimoire" apre ora con più saggezza a quella spiccata componente acustica figlie dei primissimi lavori. Il ritorno all'Antico è uno sguardo ispirato e introspettivo nel libro della propria giovinezza. Chiude "A Cloak of Dust": purezza acustica, riscalda fra due voci quanto resta della magia, quanto resta del tempo evocato. Si spengono le braci, si volta pagina. Non l'ultima.





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