Nile
Annihilation of the Wicked

2005, Relapse Records
Death Metal

Un disco che onora il death metal portandolo a un livello superiore
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 03/01/14

Quando si ha la bravura e la fortuna di comporre un capolavoro del genere (“Black Seeds Of Vengeance”) e di riuscire a migliorarlo ulteriormente (“In Their Darkened Shrines”), il passo successivo è quello di trovare una nuova via per esprimersi. Meglio non tentare la sorte quando hai raggiunto il massimo concepibile per quelli che sono i parametri della tua band, o evolversi senza tradire il proprio nome o sfornare inutili dischi fotocopia.

I Nile fortunatamente, arrivati all’alba del quarto disco in carriera e in una posizione di dominio del panorama death dell’epoca, optarono per la prima opzione. Dietro una delle copertine più tamarre che il metal ricordi, si nasconde un lavoro che ad oggi assume più importanza di quanto l’avesse nel 2005. Considerando poi la carriera seguente degli americani, si può facilmente affermare che “Annihilation of the Wicked” è il full-length del definitivo cambio di rotta dei Nile, un punto della discografia che farà da cardine per gli anni a venire, segnando la direzione artistica delle future produzioni, con esiti buoni (“Ithyphallic”), molto buoni (“Those Whom The Gods Detest”) e meno buoni (“At The Gate Of Sethu”).

Se nei primi tre dischi in carriera i Nile avevano espresso l’esprimibile in termini di violenza brutale mista ad epicità, con la componente “egizia” della propria musica a dettare danze ed esigenze artistiche, facendo ricorso a tutta una serie di espedienti non propriamente metal, quali cori, sottili elementi sinfonici, percussioni, in modo da rendere sempre più epicamente orientaleggiante la proposta, con “Annihilation of the Wicked” è il metal a riprendersi il ruolo principale. Come se la band fosse consapevole di non dover/poter più muoversi nei soliti schemi, con un bel colpo di spugna praticamente via tutte le componenti “extra metal”, solo (o quasi) chitarre, batteria, basso e voci. Ma come fare a mantenere il tutto inerente al concept della band, interessante da ascoltare, violentissimo senza rinunciare al tipico timbro oscuro/epico? Semplice, elevare il songwriting.

Un disco più complesso, strutturato, articolato, che riesce a colpire con la furia di sempre ed al tempo stesso emozionare, ipertecnico ma tronfio di una sensibilità sinistra lovecraftiana (l’altro pilastro su cui si fondano i Nile). Un’operazione ambiziosa che i nostri adempiono alla perfezione, facendo di questo disco l’unico in grado di reggere i due capolavori prodotti in precedenza. Una svolta “all metal” dicevamo, che mantiene intatto lo spirito egizio grazie a chitarre ispiratissime lanciate a velocità e tecnicismi mai raggiunti prima (simpatica la spiegazione nel libretto di Karl Sanders quando si è trovato a suonare le prime volte il riff di “The Burning Pits Of The Duat” scritto dal fido compagno Dalla Toler-Wade, roba da appendere le chitarre al chiodo) sapendo all’occorrenza quando rallentare in brani lunghi e sfibranti, dove più che in altre occasioni di avverte la continua ricerca della tensione emotiva facendo ricorso ai soli cari strumenti del mestiere.

Come sempre un album dalle molteplici sfaccettature, che onora il death metal portandolo a un livello superiore, dove non è solo questione di suonare il più velocemente e brutali possibile. Si può infatti rimanere di stucco davanti a un brano come “Cast Down The Heretic”, in cui la furia della band sembra fluire senza seguire alcuno schema, alternando variazioni sempre più incalzanti fino al lunghissimo scambio di assoli incrociati tra le due asce, tanto chiedersi quando mai la finiranno, o durante l’ascolto di “mini suite” come “User-Maat-Re”, “Von Unaussprechlichen Kulten” o la title-track (nove minuti circa ognuna), in cui il songwriting lodato sopra raggiunge livelli di eccellenza assoluta, evocando visioni e atmosfere opprimenti che rendono pienamente giustizia a quello che la band ha da sempre rappresentato.

Un lavoro mastodontico, che vede per la prima volta il fenomenale greco George Kollias alla batteria e per l’ultima volta Jon Vesano al basso voce (benchè siano anche Karl e Dallas a contribuire alle parti vocali), l’ultimo disco dei Nile dell’epoca d’oro, in cui non è tanto l’affetto e la riconoscenza per anni e anni di assoluto dominio a parlare (vedi le lodi a “Those Whom The Gods Detest”), ma la mostruosa qualità di quello che si ascolta, tanto da fare sussurrare sottovoce che dischi del genere il metal non ce li regalerà mai più...



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