Nile
Ithyphallic

2007, Nuclear Blast
Death Metal

Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 13/01/14

A due anni di distanza da “Annihilation of the Wicked”, e dopo il passaggio al roster Nuclear Blast, i Nile danno alla luce “Ithyphallic”, il quinto album di una carriera che vede i nostri non più saldi sullo scranno più alto del death metal, anzi, per la prima volta si intravedono le prime crepe che non smetteranno di allargarsi negli anni a venire.

Titolo e copertina parlano chiaro, il riferimento è alla divinità egizia Min, dio della fertilità risalente al periodo della predinastia, un enorme statua trasportata da un nugolo di schiavi, un’immagine densa di crudeltà, misticismo ed epicità, tutti elementi che, oltre agli onnipresenti rimandi alla letteratura di H. P. Lovecraft, hanno fatto dei Nile una delle band cardine nel panorama estremo degli ultimi anni. Come abbiamo già avuto modo di dire, se “Annihilation of the Wicked” ha rappresentato un nuovo punto di partenza per gli americani, il presente “Ithyphallic” è un’ulteriore estremizzazione del processo evolutivo compiuto dalla band. Non traggano in inganno i primi secondi, a dir poco solenni, di “What Can Be Safely Written”, la matrice del disco è ancor più brutale e asciutta del predecessore, ormai diventato un death metal ipertecnico in cui la componente atmosferica ha sempre meno spazio.

Laddove le strutture erano intricate, il duo Sanders/Toler-Wade è riuscito a enfatizzare ancor di più la propria preparazione tecnica maturata negli anni, lanciandosi in riff e variazioni da capogiro ma perdendo un bel po’ di “anima”. È come se il sound dei Nile fosse stato ripulito di tutti gli orpelli giudicati meno utili allo scopo, ipercompresso, lasciato bruciare al sole del deserto e poi sparato con la massima violenza possibile. Non solo muscoli ovviamente, i nostri non hanno perso la vena creativa, l’ampio uso di mid tempo e le tracce più lughe e riflessive (bellissima la conclusiva “Even the Gods Must Die”) sono sempre lì a dimostrarlo, ma è come se i Nile avessero voluto rendere “bidimensionale” questo “Ithyphallic”.

Se fino ad ora si poteva rimbalzare dal furore death, alla sontuosità del “citoscheletro egizio” che reggeva tutta l’impalcatura, a questa tornata l’unico modo di apprezzare appieno “Ithyphallic” è farsi piacere il brutal esplosivo del combo, all’interno del quale rimangono ancora pause epiche degne di nota ma meno sentite, meno enfatizzate. Niente di imperdonabile sia chiaro, probabilmente se questo quinto album fosse stato il debutto dei nostri staremmo qui a gridare al miracolo, ma proprio per questo l’attenzione a ogni minimo particolare è forse più scrupolosa che per altri. Brani come l’opener “What Can Be Safely Written”, “As He Creates So He Destroys”, “Papyrus Containing the Spell to Preserve Its Possessor Against Attacks from He Who Is in the Water” (dalla velocità esecutiva direttamente propozionale alla lunghezza del titolo), “The Language of the Shadows” o la stessa title-track sono inarrivabili per chiunque, foriere di violenza a pioggia e stacchi catacombali, eppure la magia non è la stessa di sempre.

Complice la produzione di Neil Kernon, molto incentrata sulla straordinaria batteria di Kollias (una prova superlativa per velocità, precisione e fantasia) e quasi inaridita, il disco sembra una di quelle bufere di sabbia del deserto che atterriscono senza lasciare scampo, in cui l’anima di cui sopra si fa meno strada nelle orecchie, legermente deficitaria come quantità e soverchiata per quasi tutta la durata del disco. Siamo ancora lontani da quel death “puro esercizio di stile” di “At the Gate of Sethu”, i nostri ci metteranno ancora cinque anni per arrivarci, ma ci arriveranno e come in una antica pergamena, se ne scrutiamo bene i segni, potevamo già accorgene ascoltando “Ithyphallic”. Era solo questione di quando sarebbe accaduto.



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