Soundgarden
Louder Than Love

1989, A&M Records
Grunge

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 21/03/13

"It's sort of making fun of heavy metal bravado. Metal bands would say Louder Than Thunder or something. So Louder Than Love, what is Louder Than Love?"
 
Stando a sentire Chris Cornell, sono queste le motivazioni che stanno dietro il nome del secondo full lenght dei Soundgarden. Una spiegazione convincente, conoscendo l’attitudine inguaribilmente sbruffona della band, alla quale qualche anno dopo il chitarrista Kim Thayil avrebbe aggiunto un ulteriore succoso retroscena: nei piani il titolo avrebbe dovuto essere “Louder Than Fuck”. Ma nel 1989 i Soundgarden, dopo aver già mosso con “Ultramega OK” i primi passi per ritagliarsi uno spazio in prima fila nella brulicante scena grunge, erano finalmente approdati sotto l’egida di una major (A&M Records) che verosimilmente pose un comprensibile veto alla stampa di un album con un nome simile. Niente di troppo grave in ogni caso per la band di Seattle, che riuscirà comunque a fare di “Louder Than Love” il suo album più sfacciato, tracotante e liricamente esplicito. E, cosa ben più importante, il primo gioiello della sua prolifica carriera.
 
Li avevamo lasciati al fracasso del debut album, un pastone di sgraziati schiamazzi, ritmi ossessivi, chitarre pesanti. Un’uscita in linea con le pubblicazioni contemporanee di gran parte delle band cresciute in aree limitrofe: dischi prodotti con pochi dollari che mostravano sì buone idee, ma che non erano ancora concreti al punto da garantire lo sfondamento del muro tra underground e mainstream, le copertine e le tournee in tutto il globo. Ma bastarono soltanto tredici mesi perché i Soundgarden si scrollassero di dosso tutta l’ingenuità del debutto. Via quei pezzi dall’utilità ben poco chiara, sospetti riempitivi atti a far raggiungere a un disco il minutaggio necessario per insignirsi del nome di long play. Via anche quella produzione sciagurata che impastava tutto quanto: adesso le sonorità della band sono ricche, piene, per un sound nel complesso ben più vivido e sgusciante. 
 
Ma il cambiamento più importante riguarda i processi creativi a monte della scrittura dei pezzi. Se nell’esordio c’era ancora una sostanziale equipartizione degli oneri compositivi, per il seguito Cornell oltre alle lyrics scrive di suo pugno più della metà delle parti strumentali, diventando una figura sempre più autoritaria all’interno della band. La cosa non mancherà di creare i primi dissapori, con la progressiva emarginazione di Hiro Yamamoto (che aveva composto gran parte del lavoro precedente), che finirà per essere educatamente messo alla porta poco dopo l’uscita del disco. Il bassista era indubbiamente l’anima più ‘nera’ della band, ed è evidente la mutazione cui le sonorità dei Soundgarden vanno incontro: se in “Ultramega OK” il sound del quartetto era a mezza via tra il fatalismo sabbathiano e l’immediatezza dell’hardcore e dell’alternative metal, in “Louder Than Love”, pur non liberandosi di una rozzezza ancora ben radicata, si indora di componenti melodiche più marcate, che fanno da palcoscenico ideale per l’esibizione delle straordinarie doti canore del vocalist.
 
Quella di Cornell è una voce ancora più piena che nell’esordio, che guadagna in controllo e in tecnica, non strabordando più di tanto al di fuori delle partiture e non perdendosi nei fastidiosi malriusciti miagolii di alcuni precedenti episodi. Una maggiore misura che però non le impedisce di raggiungere picchi d’esplosività che non riuscirà più ad eguagliare (se non in alcuni frangenti del successivo “Badmotorfinger” o del progetto “Temple Of The Dog”). A mostrarlo, fin da subito, il maestoso crescendo sul bridge dell’opener “Ugly Truth”, un pezzo che, pur non incidendo chissà quanto, ha il pregio di fare efficacemente da ponte con le sonorità del primo disco, per condurre in modo fluido ai due grandi pezzi che i Soundgarden piazzano immediatamente dopo. “Hands All Over” e “Gun” infatti sono, anche se per motivi diversi, due vere e proprie perle. La prima fa dell’immediatezza il suo cavallo di battaglia, con la sua base ritmatissima e saltellante e un riff coinvolgente e di presa facile, che non a caso si farà risentire praticamente in tutte le scalette live e in tutte le successive raccolte. La seconda è una vera e propria violenza perpetrata ai danni della struttura usuale della canzone rock: parte come una marcia fangosa, per poi velocizzarsi in una progressione inarrestabile, diventando sempre più veloce battuta dopo battuta, per sciogliersi in una rapidissima sfuriata di matrice punk. Cinque minuti di puro estro e di sana follia, con una prestazione disumana di Cameron alla batteria, un breve ma concitatissimo assolo di chitarra, urla belluine sul finale che si fa di nuovo opprimente. Si fanno notare nelle due canzoni lyrics riottose inedite per la band , che vanno dall’explicit content dell’”I’ve got an idea of something we can do with a gun” agli inneggiamenti alla sommossa violenta metaforizzati da versi come “You got to kill your mother”, che crearono non pochi problemi alla band. Tematiche che verranno riprese, nascoste dietro testi all’apparenza a sfondo sessuale, nella quasi-title track “Loud Love”, primo vero capolavoro del songwriting di Cornell: chitarre ammantate di psichedelia, basi ossessive, vocals goderecce. Un pezzo cui il tamarrissimo video ufficiale, con il vocalist incartato in un paio di bermuda lucidi che sembrano fatti di nastro isolante, non ha mai reso troppa giustizia.
 
A stemperare il tutto ci pensano nuovi parti di quell’anima gigiona che accompagnerà sempre i Soundgarden, quel gusto caustico che permea lo sbeffeggiamento del glam metal proposto nella spassosa “Big Dumb Sex”, o la delirante storia di vita raccontata tra gli ansimi e l’ingombrante basso di “Full On Kevin’s Mom”, piuttosto che i testi satirici dell’allegrotta e asimmetrica “Get On The Snake”. C’è spazio anche per il canto del cigno di Yamamoto, che firmerà gli ultimi pezzi di una carriera che forse avrebbe potuto dare parecchie altre soddisfazioni. Tre tracce avvolte in atmosfere lente e maligne, che forse non s’incastrano perfettamente tra gli altri momenti, più easy, della tracklist. Tra i superflui deliri d’onnipotenza di “Power Trip” e le batterie quasi tribali di “No Wrong No Right”, spicca però la sottovalutata – se non dimenticata – “I Awake”, piena di acuti strazianti che squarciano tappeti di riff sabbiosi, toccando livelli emotivi ancora inesplorati prima di disperdersi, nel fade out conclusivo, in ombre ed echi lontani.
 
Un reprise di “Full On Kevin’s Mom”, al quale viene per l’occasione conferito un tono corale/epico che contrasta in modo assurdo con le lyrics, svolge egregiamente il compito di punto esclamativo posto al termine un lavoro rabbioso, ma al tempo stesso divertente. Invecchiato non proprio benissimo, “Louder Than Love” viene spesso tenuto in considerazione meno di quanto merita, a causa di una natura interlocutoria, da trait d’union tra l’acerbo esordio e i due successivi, ingombranti, capolavori. Il secondo lavoro dei Soundgarden è però un disco spontaneo e veramente godibile, un'ottima vetrina per le grandi capacità di songwriting e per la genialità di una band ormai davvero vicina alla piena maturità artistica. Pazienza se la qualità dei pezzi è ancora altalenante, se alla lunga la proposta suona un po' ripetitiva, se a volte ci si perde in inutili narcisismi. Dategli comunque un’opportunità e rispolveratelo. Godetevi un po’ di sano rumore.




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