Steven Wilson
Hand. Cannot. Erase.

2015, Kscope
Prog Rock

Intenso e malinconico, "solamente" un buon album
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 03/03/15

Quarto capitolo solista per il genietto inglese Steven Wilson, cantante, musicista, produttore e in buona sostanza guru dei giorni nostri del prog rock moderno e non solo, fonte di ispirazione a cui band dal pedigree nobilissimo guardano con la dovuta ammirazione (chiedere ad Anathema e Opeth, per fare giusto due nomi). Uomo dei due mondi il caro Steven, in missione per conto di Dio per riportare negli impianti audio degli ascoltatori del nuovo millennio il prog dei nostri padri, cercando di onorarlo e renderlo moderno, contemporaneo, personale. Una missione che vede il nostro dibattuto, ça va sans dire, tra vecchi e neo progressisti, iniziata nella solitudine della propria stanza negli anni 80, come lo stesso Steven ci ha confidato in sede d’intervista (a breve sulle nostre pagine): “quando nessuno ascoltava più prog io ero lì da solo a suonare”.

Cosa aspettarsi dunque dal nuovissimo “Hand. Cannot. Erase.”? A due anni dall’ottimo “The Raven That Refused to Sing (And Other Stories)”, una dichiarazione d’amore verso un certo prog inglese (King Crimson e scuola di Canterbury su tutti) che ha certamente dato fiato alle trombe della schiera dei “detrattori” del nostro, Wilson ci propone un album totalmente differente. Differente nelle fonti di ispirazione (trai più citati i Genesis e Camel), differente nelle sonorità, nella scrittura, nell’utilizzo e nella valorizzazione degli illustri turnisti (squadra che vince non si cambia) chiamati per questo quarto full solista. Non un colpo di spugna ovviamente, ma un inciso in cui possiamo ritrovarci tutto l’universo wilsoniano, che forse prima era stato porzionato in capitoli più o meno distinti, fuso insieme con la solita cura da amanuense del suono.

Un album variegato, che riesce a spaziare da singoli, o possibili tali, pop, a soluzioni elettroniche e new wave/avantgarde (curiosamente scelte, queste sì, come apripista per l’album), con la medesima efficacia, passando per il rock, il metal (virgolette d’obbligo) e ovviamente prog, delineando un album più arioso, più semplice da ascoltare, ma non banale. Un lavoro intimista, basato sulla tragica e surreale storia vera di Joyce Carol Vincent, una donna trovata morta nel suo appartamento, anni dopo il decesso, senza che nessuno avesse mai chiesto di lei (vi rimandiamo all’intervista per approfondire la questione). Una vicenda triste che delinea un disco dalle tinte malinconiche, delicate e affrante, in cui però manca qualcosa per poter ascrivere “Hand. Cannot. Erase.” tra i migliori parti del musicista inglese,

A differenza della cover, in cui risaltano contrasti e una sferzata di colore quasi rabbiosa, musicalmente abbiamo a che fare con una scala di grigi che minuto dopo minuto tende sì ad armonizzare il tutto ma a renderlo anche fin troppo omogeneo (non ci azzardiamo a definirlo monotono). Un abbassamento dei toni che ricorda diverse uscite wilsoniane, a cui però manca l’adeguata ispirazione, quella trovata particolare in grado di dare il giusto accento a una costruzione sonora ammirevole che, privata della giusta scintilla, rischia di trasformarsi in qualcosa di poco funzionale. Tanto pregna la materia wilsoniana che ancora oggi non riusciamo a individuare uno o più motivi certi per giustificare parole e voto all’opera, ma si percepisce. Vuoi per una prova strumentale giocata più di tocco che di prepotenza tecnica, predilgendo l’eleganza esecutiva all’estro virtuositico, vuoi per la quasi totale assenza dei fiati di Theo Travis (da tempo una piacevole consuetudine), o semplicemente per una differente scelta stilistica definita a priori e poi forse sfuggita di mano o non supportata a dovere, sta di fatto che “Hand. Cannot. Erase.” non ci stupisce come avremmo voluto.

Rimane la superiorità di Steven Wilson, così malinconico musicalmente quanto sorridente e gioviale incontrato vis-a-vis, che riesce a confezionare un lavoro comunque eccellente e ben oltre il livello della stragrande maggioranza dei colleghi. Quando si è abituati al meglio, è difficile adattarsi a un disco che potremmo definire “solo” molto buono.



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