Avete presente lo stereotipo dell’hard rock che da una trentina d'anni tinge Los Angeles di fucsia? Avete presente tutte le pailliettes che scintillano attorno ai night club della metropoli d’oltreoceano? Lo so: avete sempre pensato che gli americani fossero maestri nell’indossare leggins leopardati negli anni ottanta, per poi levarseli di dosso ed amalgamarsi con i tempi, mostrando al mondo un’immagine rinnovata e conformista.
Ecco, dimenticate tutto ciò. Una frazione di cuore pulsante di quell’hard rock cotonato cresciuto con noi la si può trovare anche su questa sponda dell’Atlantico. In Inghilterra, direte voi. Anche. Ma qui si stava pensando a qualcosa di ancora più a portata di mano. Salite in macchina ed allontanatevi un paio d’ore da Milano, attraversate il confine con il Canton Ticino e, già che ci siete, ammirate l’imponenza del San Gottardo.
Ecco, siete arrivati nel territorio dei Gotthard.
Venticinque anni di carriera, una line up di roccia prelevata direttamente dalle miniere del San Gottardo (scalfita, recentemente, da un terribile incidente di moto), dodici album in studio all’attivo e una risaputa, assoluta resa live che, spesso, induce qualche complesso di inferiorità nelle band che si trovano a dividere il palco con il quintetto svizzero (qualche dettaglio in più in tal proposito è specificato nella nostra intervista).
Partiamo dalla premessa che i Gotthard stanno almeno un passo avanti alla loro stessa notorietà, essendo una band assolutamente impeccabile che, purtroppo o per fortuna, non ha mai fatto il “grande salto internazionale”, almeno non ai livelli di altre hard rock band emerse negli anni Ottanta. I loro primi nove album sono una catena di lavori brillanti, sinceri, energici e sempre al passo con i tempi. Dopo la release di “Need To Believe”, che sfiorava la perfezione, l’incidente. Il silenzio. Il cambio forzato di line up. Il nuovo cantante e… be’, l’inevitabile scetticismo dei fan. Perché si sa: la line up di una band si modifica completamente, ma un cantante nuovo è difficilissimo da digerire.
“Silver” è il terzo album con Nic Maeder dietro al microfono. Il disco ha diversi ruoli: il primo e più importante è quello di far vibrare violentemente la cartilagine di qualsiasi orecchio capiti vicino alle speakers, inebriandola con quell’inconfondibile energia positiva Gotthardiana. Il secondo è consacrare definitivamente l’apporto compositivo e interpretativo del nuovo cantante dei Gotthard. Il dodicesimo album in studio non è altro che l’evoluzione perfetta degli immaturi “Firebirth” e “Bang!”, dolorosi album di passaggio volti a definire la nuova coesione del quintetto.
I Gotthard di “Silver” rimangono fedeli a loro stessi nel giocare con le tematiche di sempre, condendo il tutto con una parte melodica ricercata. Si parla d’amore e di fiducia in se stessi con l’entusiasmo di chi ci crede davvero, sempre con un delizioso sarcasmo di fondo.
Nel caso vogliate sapere qualcosa in più di questo sarcasmo di fondo, tendete l’orecchio a “Tequila Symphony N.5” e ai suoi versi soavi. Coglierete lo spirito più puro del rock'n'roll. Il quintetto elvetico, reduce da una corsa ad ostacoli lunga venticinque anni, è riuscito nell’impossibile: rinnovarsi completamente, senza snaturarsi.