Non so dove andrò a questo punto, ma prometto che non sarà noioso

A parte un paio di eccezioni, tutti gli artisti che hanno lavorato con me hanno dato il meglio

12 settembre 1980 – Scary Monsters (And Super Creeps) 

C’è la old wave, c’è la new wave  e c’è David Bowie

Come si può andare più lontano della Trilogia Berlinese? Forse non si può, e Bowie lo sa bene, dunque cambia rotta, per l’ennesima volta. Con Scary Monsters (and Super Creeps) il Duca entra negli anni ’80 in modo anticonvenzionale, un salto nel buio, che vuole prestare molta attenzione agli arrangiamenti e ai testi. Crea così uno dei dischi più riusciti e copiati nella storia della musica. Anzitutto gli ospiti: Tom Verlaine chitarrista dei Television, tra i più innovativi e originali della scena, suona con Bowie in Kingdom Come, si rinnova la collaborazione con Robert Fripp (chitarrista e leader dei King Crimson), Roy Brittan, pianista di Springsteen e, dulcis in fundo, Pete Townshend.
L’album è il prototipo e il massimo esponente dei movimenti New Wawe e Post-Punk, due correnti che riempiranno negli anni successivi gli scaffali dei negozi di musica: tutti i grandi gruppi che nasceranno in quel periodo e negli anni successivi (Simple Minds, The Cure, Japan, Joy DivisionLitfibaBluvertigo e chi più ne ha più ne metta) si riconosceranno come “figli” di questo album e anche dell’immagine di Bowie. Brani come “Fashion” diventano fondamentali nei primi anni di MTV, mentre con il brano “Ashes to Ashes” l’immagine si trasforma ancora, stavolta riflettendo sul suo passato. Torna infatti il Major Tom (“Do You remember a guy that’s been / In such an early song?”) sebbene ora il Duca si sia trasformato in un pierrot triste su una spiaggia deserta, a richiamare il periodo in cui si esibiva come mimo e il mondo ne è affascinato, come racconterà lo stesso Marilyn Manson anni più tardi. “Scary Monsters (And Super Creeps)” è l’album feticcio per tutti i gruppi anni ’80 e non solo. Amato e imitato, guarda sicuramente a certi momenti del passato con nostalgia, ma è sicuramente proiettato verso qualcosa di innovativo. Si tratta della catarsi di un artista che vuole lasciarsi alle spalle le figure del passato, i “mostri spaventosi” che lo tormentano.

Ascolta: Ashes To Ashes

David Bowie e i Queen – Under Pressure (1981)

È interessante pensare come il primo passo di Bowie negli anni ’80 sia in realtà un ritorno al rock con una collaborazione insieme ai Queen. Il Duca era stato ospitato sul palco del Montreaux jazz Festival insieme alla band inglese per cantare i cori nel brano “Cool Cat” dei Queen. Si incontrarono nei camerini dell’evento e l’intesa fu subito fortissima, Brian May parlò a Bowie di un arrangiamento che aveva scritto ma non trovava forma, così, da una serata a base di alcol e droga nacque uno dei pezzi più famosi degli anni 80: “Under Pressure”, inserito nell’album dei Queen “Hot Space”. La leggenda vuole che l’indimenticabile giro di basso (solo 2 note diverse!) fosse stato scritto da Bowie, in realtà fu opera del bassista dei Queen John Deacon, che lo fece sentire agli altri, ma dopo che andarono a cena se ne dimenticò e Bowie glielo ricordò. Il brano non fu mai eseguito dal vivo fino al 1992, quando David Bowie cantò insieme ai Queen e Annie Lennox (voce degli Eurithmics) durante il Freddy Mercury Tribute Concert davanti a milioni di spettatori.

Ascolta: Under Pressure

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14 aprile 1983 – Let’s Dance

Cosa accade quando David Bowie incontra uno dei più grandi chitarristi dance e frontman di una delle band più famose del genere? Ovvio, i due conquistano il mondo. Il ritorno a New York è per Bowie anche un ritorno a una produzione più allegra ed entusiasta e, per certi versi, meno sperimentale. Nella metropoli americana incontra Nile Rodgers, storico chitarrista e fondatore degli Chic, autore di successi planetari. I due si intesero subito, così Rodgers produce il quindicesimo disco di David Bowie dal titolo “Let’s Dance” ispiratissimo dalla musica del tempo e ancora una volta imitato in tutta l’Inghilterra e non solo. Sarà forse per le parti di chitarra incredibili suonate dal mitico Steve Ray Vaughan (che Bowie aveva visto suonare dal vivo sempre al festival di Montreaux) o per gli accattivanti pezzi pop contenuti al suo interno, come “Modern Love” e “China Girl”, scritta da Bowie per Iggy e contenuta in “The Idiot”. O forse ancora per la fantastica collaborazione con Giorgio Moroder per il film di Paul Schrader “Cat People” (come l’omonimo pezzo). Fatto sta che il disco rappresenta tutt’ora il più grande successo commerciale di David Bowie nel mondo, seguito dal Serious Moonlight Tour, uno dei tour più maestosi che si ricordi, con ballerini ed effetti speciali, come fosse un musical. Altrettanto maestoso è il primo singolo estratto dall’album omonimo, un pezzo ritmato e trascinante che segnerà gli anni ‘80. Siamo di fronte a un successo senza precedenti nella carriera di Bowie, una carriera fino a questo momento perfetta.
Cambia anche il look: adesso Bowie è un rampollo ben vestito, biondo e abbronzato, che sembra essersi lasciato alle spalle i fantasmi degli anni ’70, pronto a ricominciare. Si potrebbe dire un “Modern Lover” per citare una delle canzoni più famose di “Let’s Dance”. Una nuova maschera o forse no? In pesava anche il ritrovato rapporto con il figlio simpaticamente rinominato Zowie (Duncan), di cui iniziò a prendersi realmente cura solo dopo “Heroes”, tanto importante da dedicare il brano a lui e a “tutti i bambini del mondo” nel celebre concerto di Londra del 1985.

 Ascolta: Let’s Dance

21 settembre 1984 – Tonight

Si suol dire che quando si è troppo in alto si può solo scendere, ed è (in parte) vero anche nel caso di David Bowie. Dopo l’immenso successo di “Let’s Dance”, torna con la sedicesima fatica a settembre dell’84: “Tonight”, dopo aver sostituito Nile Rodgers alla produzione. Nonostante la critica lo stronchi da subito, riesce comunque a raggiungere il disco di platino prima della fine dell’anno. Ma perchè questo giudizio così duro? In effetti l’album sembra quasi una raccolta di vecchi pezzi che Bowie aveva scritto per Iggy Pop (ce ne sono alcuni da “Lust For Life”), reinterpretati in chiave post disco, uno dei quali, “Tonight”, lo vede impegnato in un bellissimo duetto con Tina Turner. C’è anche una strana versione in chiave crooner di “God Only Knows” dei Beach Boys: Bowie torna ad omaggiare le sue radici musicali. I pezzi originali nell’album sono solo due: il primo si chiama “Blue Jean”, scritto a quattro mani con l’immancabile Iggy Pop, che vide il Duca protagonista in un videoclip/cortometraggio diretto da Julien Temple, e la stupenda “Loving The Alien”, uno dei pezzi più belli dell’intera discografia di Bowie. Significativo è l’impegno di Bowie per i temi religiosi e sociali, impegno già suscitato con “China Girl” e “Let’s Dance”, ma stavolta con “Blue Jean” e “Loving The Alien” l’attenzione è ai minimi storici, un terreno scivoloso in cui si afferma l’idea che la storia viene continuamente riscritta. L’artista inglese motivò quest’ultimo lavoro dicendo che non riusciva a stare con le mani in mano, forse perché spinto dall’etichetta a produrre, ma comunque anche se considerato un mezzo passo falso, il Duca Bianco casca sempre in piedi.

Ascolta: Loving The Alien

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“Cracked Actor” – Cinema e teatro negli anni ’80

Sono tante le collaborazioni di Bowie negli anni ’80, molte delle quali vengono impiegate come canzoni da film: in primis la sognante “This is not America”, scritta insieme al Pat Metheny Group. Pat Metheny è uno dei chitarristi fusion più quotati e amati nel panorama internazionale allora come oggi, e questo featuring viene utilizzato come colonna sonora del film “Falcon and the Snowman” di John Schlesinger con Sean Penn. Nell’81 si dedica al teatro nel dramma di Bertold Brecht “Baal”, di cui in seguito registrò le sei canzoni contenute nell’opera che confluirono nell’EP “David Bowie In Bertold Brecht’s Baal”, da alcuni considerato l’ultimo capito di quella che dovrebbe essere una “tetralogia berlinese”. Un piccolo gioiello ingiustamente dimenticato e mai più ristampato.
Recita l’anno successivo in uno dei suoi ruoli meglio riusciti: il maggiore Jack Celliers in Furyo, diretto dal regista giapponese Nagisa Oshima, e ancora incarna un vampiro elegante e misterioso in “Miriam si sveglia a Mezzanotte”, accanto a una Catherine Deneuve all’apice del suo splendore. Un’altra colonna sonora sulla quale Bowie mise le mani fu quella per un film di Julien Temple tratto da un romanzo di Colin MacInnes dal titolo “Absolute Beginners”. Il pezzo omonimo lo scrive per l’appunto Bowie e comprende un assolo di sassofono mozzafiato.
Il Duca torna a lavorare con Julien Temple, anche come attore nel film, forse perché si parlava della nascita della gioventù della Londra degli anni ’50, che Bowie conosceva bene, nella pellicola cantava anche una bizzarra versione di “Nel blu dipinto di Blu” di Domenico Modugno. Nello stesso anno Bowie ha anche l’occasione di collaborare con Mick Jagger, che stima moltissimo, per il Live Aid, performando insieme un pezzo dei Martha and the Vandellas scritto da Marvin Gaye nel 1964 dal titolo “Dancing in the Streets”. Il ricavato raccolto grazie al successo del pezzo viene devoluto interamente in beneficenza. Sempre nello stesso anno recita e canta 5 pezzi nel film di Jim Henson “Labirynth“, pellicola che consacrerà ulteriormente le straordinarie doti di Bowie come attore oltre che come musicista e diventerà un classico del cinema per i più piccoli.

Ascolta: Absolute Beginners

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27 aprile 1987 – Never Let Me Down

David Bowie punta tutto. Dopo essersi più che ripreso dall’ultimo album grazie alle leggendarie collaborazioni, e dopo aver prodotto l’ultimo lavoro di Iggy Pop “Blah Blah Blah”, Bowie vuole creare un disco che sintetizzi tutta la sua produzione dell’ultimo ventennio. Da questo ambiziosissimo progetto nasce “Never Let Me Down”, anticipato dal singolo “Day in, Day Out”, accolto con tiepido entusiasmo. Non si può dire lo stesso dell’album, che, a differenza di “Tonight”, giudicato dallo stesso Bowie frettoloso e caotico, vEde impegnato il Duca come non succedeva da tempo, insieme a Peter Frampton, alla chitarra in alcuni brani, e Mickey Rourke. La critica lo stronca. I motivi sono ancora una volta molteplici: per primo, forse, una perdita di direzione artistica, poi la forte pressione del pubblico e dell’etichetta, la rottura con Visconti, o forse perché era più concentrato sulla trasposizione dal vivo dei sui pezzi che non sulla creazione di nuovi. Infatti, lo Spider Glass Tour è maestoso tanto quanto il Serious Moonlight di qualche anno prima, acquisendo la forma di un musical più che di una serie di concerti. In tutto questo, il suicidio del fratello Terry, a cui dedica “Jump They Say”, è un colpo dal quale Bowie fatica a riprendersi.
I pezzi del disco sono comunque di notevole fattura. Per esempio, secondo Bowie stesso, il brano più riuscito è “Zeroes”, che racchiude tutti gli stereotipi della musica anni ’60. In effetti, si nota un ritorno a una psichedelia tipica di quel periodo. Il cantante inglese racconterà in seguito che l’album fu per lui una delusione amara, dato che impiegò molte energie nella realizzazione, ma senza sapere né cosa stesse facendo né se avesse più qualcosa da dire.
Da questo momento c’è bisogno di ritrovare la rotta. Dovremo aspettare fino al 1993 per riascoltare un disco solista firmato da David Bowie.

 Ascolta: Zeroes

23 maggio 1989 – Tin Machine I

David Bowie è forse la rock star più famosa del mondo, nonostante ciò sente la necessità di reinventarsi totalmente. Durante il Glass Spider Tour incontra il chitarrista Reeves Gabrels, che lo aiuta a riarrangiare alcuni pezzi per delle performance, trovandosi bene a lavorare insieme. Decidono così di reclutare alla sezione ritmica i fratelli Hunt, con cui Bowie aveva già lavorato in “Lust for Life” di Iggy Pop,, e insieme creare una vera e propria band dal nome Tin Machine, in cui tutti gli elementi avessero un ruolo creativo. Ispirati dal nascente noise rock (Pixies e scena underground bostoniana), nasce l’album di debutto dall’omonimo titolo “Tin Machine”, segnando un brusco cambio di rotta verso l’hard rock. Ne un disco dal carattere forte, pieno di canzoni di protesta alla The Clash, e dalle sonorità decise e penetranti: in mezzo a tanti titoli inediti c’è anche una rivisitazione di “Working Class Hero” di John Lennon.
La critica non è entusiasta, ma Bowie è contento di aver recuperato un po’ di smalto e di non essere sotto i riflettori. L’album risulta abbastanza creativo dal punto di vista compositivo, si menzionano specialmente le parti di chitarra di Gabrels, particolarmente caratterizzanti. il primo singolo, “Prisoner of Love”, è scandito da un riff che ricorda gli anni ’70, ma il pezzo che apre il disco è incredibilmente energico, dal titolo “Heaven’s in here”, e nella title track si cita il chitarrista e guida dei Sonic Youth, Glenn Branca. Impossibile trascurare “I Can’t Read”, che, a detta dello stesso Bowie è una delle canzoni migliori della sua carriera.
Sicuramente è interessante notare come Bowie abbia scelto un ritorno all’hard rock proprio a fine anni ’80, dato che il grunge sarebbe nato di lì a pochi mesi. Ancora una volta ci dimostra l’incredibile capacità di “fiutare” l’aria e capire la direzione che la musica prendeva col passare del tempo, e il tempo gli diede ragione.

Ascolta: Heaven’s In Here

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3 settembre 1991 – Tin Machine II

1991. Esce il secondo e ultimo lavoro di David Bowie con i Tin Machine, dal titolo “Tin Machine II”. In questo disco, ancora più a fuoco del primo dal punto di vista compositivo, c’è maggiore varietà nella scrittura dei pezzi, e la dimensione hard rock risulta più lucida. Purtroppo il disco non riscuote un grande successo: un grande peccato, perché, risentito oggi, risulta più interessante e all’altezza dello stile compositivo delle canzoni, curate negli arrangiamenti e interpretate alla crooner, come tipico di Bowie. Anche in questo caso è presente una cover dedicata al pezzo dei Roxy Music “If Three Is Something”. Al suo interno anche una stupenda ballata dal titolo “Goodbye Mr. Ed”, degna dei momenti migliori della creatività di David Bowie. Interpretabile come un ritratto degli Stati Uniti anni ’90, viene rappresentato più ricco di ombre che di luci, segno di una visione che stava cambiano (fino a giungere a “I’m Afraid of Americans” qualche anno più tardi). Ma non solo. Dentro risplendono citazioni alla pittura, alla musica dei Sex Pistols, e soprattutto l’idea che l’arte possa salvarci come il golem fece nella leggenda ebraica, ripresa nell’ultima strofa.
Non è un caso che un paio d’anni più tardi i Nirvana, la band più famosa del momento, durante la sessione unplugged per MTV, decidano di rendere omaggio a Bowie con una cover di “The Man Who Sold The World” rendendola ancora più immortale. Gli altri esponenti del grunge devono molto alla figura del Duca: anzitutto per aver anticipato il grunge con il suo improvviso ritorno all’hard rock, e poi perché questa nuova corrente rappresenta la rinascita di un movimento giovanile importante, esattamente come quello vissuto David Bowie alla fine degli anni ’60 con il glam. Il sentimento è reciproco dato che la nuova generazione, in un certo senso, ha la benedizione artistica di una star che non ha più l’età per atteggiarsi da punk rocker ma che si diletta alla scoperta delle nuove tendenze.
Tornerà di li a breve al suo nome e cognome, implorato da critica e fan, che avevano l’impressione che il concetto di band stesse stretto ad un artista di quel calibro creativo. Nonostante tutto, Bowie definisce l’esperienza con i Tin Machine un fallimento commerciale ma un successo artistico.
“Someone sees it all, goodbye mr. Ed”

Ascolta: Goodbye Mr. Ed

6 aprile 1993 – Black Tie White Noise

David Bowie torna alla sua carriera solista in grandissimo stile, ora è più forte che mai, il passare del tempo, come afferma, gli ha dato la maturità e volontà di rinunciare al pieno controllo delle sue emozioni. Ed è da questo nuovo spazio emotivo, misto a un ritorno alle origini musicali, che nasce un disco tanto moderno quanto sottovalutato: “Black Tie, White Noise”. In origine, il titolo sarebbe dovuto essere “The Wedding Album” come la traccia d’apertura, ma alla fine viene scelto un altro nome. Ed è proprio il matrimonio, l’anno prima, con la modella e attrice somala Iman Abdulmajid, una delle fonti di ispirazione per l’album. Di lei Bowie dirà “La prima volta che l’ho vista ho iniziato a pensare ai nomi da dare ai nostri figli”. Mettiamoci pure un ritorno dopo 10 anni di Nile Rodgers alla produzione e otteniamo come risultato un disco dal sapore variegato: c’è, preponderante, un ritorno al funk di qualche momento precedente, cover di un pezzo di Morrisey (The Smiths) dal titolo “I know it’s Gonna Happen Someday”, e una cover dei Cream “I Feel Free”. C’è anche un duetto col cantante R&B Al B. Sure, nella title track e una straordinaria collaborazione con il trombettista jazz Lester Bowie, alle prese con una strumentale “Looking For Leste” basata sull’improvvisazione. Diventa, da qui in poi, sempre più presente la collaborazione con i DJ che iniziarono a creare remix di molti pezzi dei suoi dischi, spesse volte inserite nelle edizioni deluxe dei vari album (non si può non citare per esempio “Pallas Athena”).

Il disco si caratterizza poi per una forte pregnanza di temi politici, affiancati a momenti più intimi. Ne è un esempio il primo singolo estratto, che sarebbe dovuto diventare di grande successo, “Jump They Say”, racconto del suicidio del fratellastro di Bowie avvenuto qualche anno prima. Per certi versi un brano inaspettato dato che si tratta di tutt’altro che una ballata strappalacrime. “Ho cercato di tradurre in forma di canzone i mei sentimenti riguardo il suo suicidio”, dichiarerà qualche anno più tardi, ma “Ha anche a che fare col fatto che sento di aver fatto a volte dei balzi metafisici nell’ignoto e mi chiedo se abbia veramente creduto che esistesse qualcosa là fuori: Dio o forza vitale, in qualunque modo lo vogliamo chiamare”.
Ci volle un intero anno per registrare “Black Tie White Noise, contrariamente al solito; infatti il Duca aveva sempre le idee molto chiare e passava poco tempo in studio, spesso portava dei nastri già registrati che necessitavano solo di qualche ritocco, questo forse per via della nuova strada compositiva che stava prendendo o per i cambiamenti che avvenivano nella sua vita. Da questo album si apre l’ultimo periodo della carriera di David Bowie, uno dei più prolifici e interessanti.

Ascolta: Jump They Say

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17 settembre 1993 – The Buddha Of Suburbia

È forse dai momenti minori che si capisce la grandezza di un artista. L’anno è lo stesso di “Black Tie White Noise”, uno dei più felici per la carriera e la vita del Duca, ma stavolta si dedica alla televisione. L’occasione è la creazione di una colonna sonora per una serie televisiva britannica dal titolo “Buddha of Suburbia”, prodotta dalla BBC e ispirata dall’omonimo romanzo dello scrittore inglese Hanif Kureishi, tra i più apprezzati del nostro tempo. La storia parla di un ragazzo anglo-pakistano che sogna di lasciare le grigie periferie e si trasferisce a Londa dove entra a contatto con un universo inesplorato fatto di arte, musica, droghe e promiscuità sessuale. Ricorda qualcosa a Bowie?
Infatti il titolo del disco è proprio “The Buddha Of Suburbia” scritto e registrato in soli 6 giorni e il risultato è un piccolo capolavoro. Anche se parlare di colonna sonora è improprio (solo la title track compare nella serie), il disco non si può considerare il diciannovesimo di David Bowie poiché non viene inserito nel catalogo discografico ufficiale, forse perché l’etichetta non lo ha considerato adatto a creare un guadagno notevole, così passa inosservato. Bowie ha un’opinione piuttosto diversa, quando lo dichiara il suo album preferito e uno dei più riusciti, e a ragione: le tracce sono una migliore dell’altra, ci sono pezzi di musica ambient, solo strumentali, fusione rock ed elettronica con qualche nota di jazz. Si citano le stupende “Buddha of Suburbia” (che vede la collaborazione di Lenny Kravitz alla chitarra), “Ian Fish, UK Heir” (anagramma di Hanif Kureishi), ma soprattutto uno dei pezzi più belli della discografia di Bowie: “Strangers When We Meet”, che includerà anche nel disco successivo in una versione diversa. L’album mette inoltre in risalto le doti del Duca come musicista, che suona quasi tutti gli strumenti che si sentono nel disco, aiutato solo da due collaboratori. Nonostante il destino travagliato di questa piccola perla, Bowie ci dimostra che la bellezza si nasconde anche fuori dallo sguardo della massa.

I’m so glad that we were strangers where we meet
I’m so thankful that we were strangers when we meet.

Ascolta: Strangers When We Meet

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