Kamelot
Poetry For The Poisoned

2010, earMUSIC/Edel
Power Metal

Un disco che pone il power metal su un livello nettamente superiore alla media
Recensione di Marco Belafatti - Pubblicata in data: 10/09/10

Tre anni di attesa... ed eccoli di nuovo tra noi. Nessuna ombra all'orizzonte per i Kamelot, che dal giorno in cui quel piccolo capolavoro concettuale chiamato “Epica” fu partorito hanno battuto ogni record di incassi, pubblicando due dischi acclamatissimi quali “The Black Halo” e “Ghost Opera” ed imbarcandosi per un tour che li ha visti salire sui palchi di mezzo mondo, fino ad imporsi come una delle realtà metal più prolifiche e famose dei giorni nostri. A suggellare lo stato di grazia di Thomas Youngblood e compagni arriva oggi un contratto con una label degna di rispetto qual è la earMUSIC (sussidiaria della ben più nota Edel), determinata nel proiettare la band verso un futuro sempre più radioso, oltre ad un artwork di altissima classe e ad un videoclip promozionale con tutte le carte in regola per far parlare di sé. Premesse più che necessarie per lanciare sul mercato l'attesissimo “Poetry For The Poisoned”, nono sigillo di una carriera evolutasi sotto l'influsso di un astro inaspettatamente favorevole.

Dimenticate, se possibile, il power metal sinfonico che li rese famosi qualche anno fa. Dimenticate allo stesso tempo il sound magniloquente, diretto e senza fronzoli di “Ghost Opera”. Con questo album i Kamelot hanno deciso di proporsi ai propri fan in una veste quasi completamente inedita. Torbido, introspettivo, a tratti ostico: così appare “Poetry For The Poisoned” ad un primo approccio. Del resto una copertina così palesemente tetra, quasi gotica nella sua componente necrofila, lasciava presagire un cambio di rotta piuttosto significativo... Vale la pena di preoccuparsi? La risposta del sottoscritto è “no”. Potete dormire sonni tranquilli: una manciata di ascolti sarà sufficiente per ritrovare il caro vecchio marchio di fabbrica dei Nostri, fatto di teatralità, pathos ed eleganza.

L'annunciato cambio di rotta si traduce subito in un'opener travolgente, completamente giocata su un riff ossessivo e sulle straordinarie capacità interpretative di un Roy Khan (qui aiutato da solidi contrappunti in growl ad opera di Björn “Speed” Strid dei Soilwork) sempre più calato nella parte di un reduce da un tour nelle profondità degli Inferi, piuttosto che in quella di Ariel, figura romantica e tormentata ispirata al “Faust” di Goethe. Il risultato non è affatto malvagio; anzi, il vocalist norvegese conferma quanto oggigiorno sia importante cambiare pelle per non rischiare di ripetere fino alla noia schemi ormai collaudati. Un altro aspetto decisamente positivo di questa produzione è il fatto che nessuno strumento prenda mai il sopravvento sugli altri, andando a costruire brani particolarmente solidi, in grado di brillare di luce propria (cosa che, purtroppo, non avremmo potuto dire per “The Black Halo” e “Ghost Opera”, dischi che in più di un'occasione tendevano a mostrarsi ripetitivi e poco ispirati). Complice, in tutto questo, una componente orchestrale intelligentemente ridimensionata rispetto al passato.

Ad onor del vero, l'inebriante sensazione di freschezza che si respira in ogni episodio del disco è in gran parte frutto di una tastiera sempre più influente nell'economia dei Nostri: Oliver Palotai trascina i brani verso un tripudio di arrangiamenti ammalianti e vagamente futuristici, come accade nella turbinosa e robotica “If Tomorrow Came”. Non manca, come vogliono le regole di casa Kamelot, la partecipazione di ospiti d'onore; in questo caso troviamo l'ex-Savatage Jon Oliva e la bella Simone Simons (presenza fissa da tre album a questa parte) ad impreziosire, rispettivamente, la rabbiosa ed austera “The Zodiac” e la toccante ballad “House On A Hill”, un effluvio di dichiarazioni d'amore che, forse ancor più di quanto intendessero fare le celebri “The Haunting (Somewhere In Time)” e “Love You To Death”, sembra essere stato composto dai Nostri con il chiaro intento di sciogliere i cuori degli ascoltatori (da segnalare inoltre l'ottimo intervento di Gus G. alle chitarre). Anche i brani meno innovativi (se in tal modo li vogliamo definire) riescono nel difficile compito di catturare il fan ormai abituato a certi escamotage; è il caso della decadente ma 100% Kamelot “Hunter's Season”, o della stupenda “My Train Of Thoughts” (miglior brano dell'opera a detta di chi scrive), fregiata da un'accoppiata chitarra/tastiera che sembra volerci trascinare con sé nella sua danza ipnotica e da un ritornello in crescendo che farà sicuramente faville in sede live. Anche là dove la componente sinfonica torna a farsi sentire in maniera prepotente (“Necropolis”, “Seal Of Woven Years”, la conclusiva “Once Upon A Time”) non mancano le sorprese, vuoi per quel senso di perdizione tipicamente noir costantemente in agguato (forse l'unico vero trait d'union tra “Poetry For The Poisoned” e “Ghost Opera”), vuoi per la raffinatezza innata delle melodie dei Nostri. Momenti di pura teatralità ci vengono infine offerti dalla suite in quattro episodi che porta il titolo dell'album, summa di tutte le anime del disco e figlia di alcuni umori progressive già intravisti in “The Black Halo”.

Forse più ragionato (e per questo leggermente meno genuino) rispetto ai lavori di metà carriera, ma sicuramente lontano dal rappresentare un mero esercizio di stile, “Poetry For The Poisoned” ci riconsegna una band professionale, in costante evoluzione, portavoce di un sound caratteristico ed ormai riconoscibilissimo. Un disco che, tra ritorni di fiamma tanto graditi quanto scontati (vi dicono nulla gli ultimi lavori di Rhapsody Of Fire e Blind Guardian?) pone il power metal dei Kamelot su un livello qualitativo nettamente superiore alla media. Il coraggio, in fin dei conti, è una qualità riservata a pochi eletti ed i ragazzi, con la loro classe incontraddistinta e la giusta dose di perseveranza, hanno finalmente capito che questa è la miglior chiave per il successo.



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