Kamelot
The Shadow Theory

2018, Napalm Records
Power / Progressive Metal

Why oh why my God, have you abandoned me?
Recensione di Costanza Colombo - Pubblicata in data: 29/03/18

Basta. È ora di smetterla di illudersi: i Kamelot sono finiti. Abbiamo fatto il possibile per perdonar loro "Silverthorn" all'indomani dell'abbandono di Roy Khan, abbiamo deciso di promuovere "Haven" convincendoci che fosse un accenno di ripresa ma se, dopo tre anni, il meglio che la band è riuscita a produrre è "The Shadow Theory", con estremo malincuore, non resta che arrendersi all'amara evidenza.


La china lungo la quale i Kamelot stanno inesorabilmente scivolando è quella dell'autoclonazione. Peccato che un foglio di cartacarbone dopo l'altro, quanto resti alla fine sia una teoria d'ombre si, ma a dir poco sbiadita. La band tenta il più tristo trucchetto power metal: nascondere l'assenza di sostanza dietro a scariche di doppio pedale. Non bastano più ritmi forsennati di Casey Grillo, ormai parimenti dipartito, a fare una canzone con gli attributi. Senza scomodare i classici, ma ce la ricordiamo una "Rule The World"?


Glissando su un'intro annacquata di Within Temptation, non resta che costernarsi di fronte a un'opener fiacca quanto "Phantom Divine (Shadow Empire)" in cui la band risulta appunto il fantasma di se stessa. Perfino "Ghost Opera", nelle profonde pieghe del suo fascino dimesso, era un capolavoro rispetto a quanto propinatoci stavolta. Non ci credete? Paragonate il primo, e deludente, singolo estratto, "RavenLight", ad una qualsiasi, si fa per dire, "My Train of Thoughts". Dov'è finito il ritmo rampante e quella vibrazione latente che creavano tessuto nervoso perfino nell'elegante decadenza di "Poetry For The Poisoned"?

 

Al dodicesimo album in studio è legittimo attendersi innovazioni più consistenti di un mezzo inserto folk e seguente coretto in "Burns To Embrace", comunque poco organici col resto. Gli unici guizzi di fugace interesse vengono smossi dalle aperture di "Amnesiac" e forse da "Vespertine (My Crimson Bride)" comunque pallidi ologrammi a confronto delle più recenti "My Therapy" e "Liar Liar".


Stessa solfa anche sul fronte duetto, stavolta con Jennifer Habens. Lungi da noi annientarlo in un raffronto con un pezzo da novanta quale "The Haunting" ma la cruda verità è che "In Twilight Hours" non è in grado di allacciare le scarpe manco al precedente "Under Grey Skies" la cui ampiezza di melodie e interpretazione di entrambi i protagonisti era ancora da pelle d'oca, non da skip. E l'accenno di teatralità recuperato in "Here's to the Fall"? Anche lui non pervenuto.


La dozzina di brani che tanto si sono fatti attendere deludono al punto da doversi imporre ulteriori ascolti di questa fall from grace soltanto per amor di giornalismo a fronte di una tracklist inconcludente e totalmente priva di verve. Questo succede quando a lasciare la band non sono soltanto cantante e batterista ma soprattutto Ispirazione.


Animo ragazzi, non può andare a finire così.





Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool