Tori Amos
Boys For Pele

1996, Atlantic Records
Indie

Recensione di Alessandra Leoni - Pubblicata in data: 27/11/10

È l'anno 1996 e qualcosa già da un po' di tempo si è spezzato nel cuore e nell'animo tormentato della rossa Tori Amos. La sua lunga relazione con Eric Rosse giunge alla fine e la bella americana si sente sconvolta e distrutta, come se avesse fatto un bel volo nel fango con i vestiti ben puliti e stirati. Parti di lei si sono perse nel cammino, si sono nascoste e tutto ciò le causa non poche agitazioni, che vanno a peggiorare il rapporto con se stessa e con gli uomini, che a sua detta non riescono mai a darle abbastanza. Urge un viaggio in solitudine, una bella pausa, che la tenga lontana dal resto del mondo. Quale meta migliore delle Hawaii?


Ed ecco che il fuoco della cantautrice si scatena in tutto e per tutto, quando viene a conoscenza della vulcanica dea Pele. Tanta è la rabbia accumulata a causa della sua infelice situazione sentimentale, del senso d'incompletezza; la voglia di arrostire gli uomini come marshmallow è tanta e feroce, ma altrettanto forte è il desiderio di riscattarsi, di essere una donna piena di passione bruciante. Da qui si può intuire perché Tori decida di produrre personalmente il suo terzo album, intitolato nientemeno che "Boys For Pele". Appunto, uomini da sacrificare alla dea del fuoco hawaiana, per poter ritrovare la pace con se stessa. Come potrete ben notare ed ascoltare, siamo anni luce lontani dalla perfezione, dalla pulizia e dall'eleganza di "Under The Pink". È come vi ho detto: immaginatevi una Tori carina, aggraziata, forse più timida ed insicura, con il suo modo eccentrico di vestirsi che ruzzola nel fango, per poi rialzarsi sporca, spettinata, arrabbiata e con gli abiti guasti tirando dritto per la sua strada, spintonando via tutti.


Va detto immediatamente che "Boys For Pele" non è affatto un album facile ed immediato. La sottoscritta l'ha sempre lasciato un po' in disparte, vuoi perché la mia preferenza andrà sempre ai primi due album, i cristallini "Little Earthquakes" e "Under The Pink"; vuoi perché non mi ha mai conquistato troppo per la sua pesantezza e la sua prolissità. Anzi, talvolta mi sembrava pure un po' antipatico e pretenzioso. Per non parlare dei testi, estremamente personali ma quanto mai oscuri e misteriosi. Sicuramente Tori li ha voluti scrivere mantenendo un'aura di mistero e di magia, proprio come la sua musa ispiratrice. O, verosimilmente, li ha voluti scrivere semplicemente per se stessa, più che per gli ascoltatori. Il suo coraggio da musicista in quest'opera si spinge verso nuovi lidi, portando una quantità di nuovi suoni e di nuove idee al punto tale che, per forza di cose, tanti dei brani registrati sono stati lasciati da parte (si dice che la nostra amata Rossa abbia registrato circa trentacinque brani per il suo terzo full-length). Alcune B-sides ci sono arrivate tramite vari singoli successivi, o cofanetti speciali; altre, invece, attendono ancora di vedere la luce: chissà mai che Tori decida di rispolverarle e di dar loro nuova vita ed una forma definitiva. Giungono clavicembali, harpsichord ed organetti ad incupire i suoni, a renderli a tratti pesanti e barocchi, ad ispessire la trama delle canzoni. L'animo di Tori, come una fiamma, si contorce, urla a volte di dolore, di rabbia, a volte si raggomitola malinconicamente, come se avesse fatto a botte con qualcuno e ne fosse uscita stordita ed abbattuta. Anche la voce non è così limpida e lo si sente bene nella furiosa e quasi funerea "Blood Roses". Signori e signore, non mi toglierò mai di testa quegli urli lanciati dalla Rossa in quel brano. Ancora adesso mi spaventano e li trovo inquietanti.


Si inizia quasi in sordina con "Beauty Queen", con Tori e quella Leslie Cabinet che tanto ovatta i suoni. Il suo pianoforte inizia mesto, una nota per volta. La voce è soffocata e debole, quasi si rendesse conto che in quel momento travagliato, la sua bellezza è scomposta e la bellezza non basta a farla stare meglio. In un attimo, tutto cambia, con la crescente e travolgente "Horses", che ricorda proprio una cavalcata lunga e liberatoria. Finalmente la voce prende più sicurezza, corre agile per l'aria, così come le dita sul suo amato Bosendorfer. Si parte in un viaggio quasi di liberazione, nella piena allucinazione e provocazione nella meravigliosa "Father Lucifer", frutto di un vero uso da parte della cantautrice di alcune sostanze non esattamente lecite. Le vicende personali riemergono sempre nelle proprie creazioni, come una madre che partorisce un figlio, con tutti i dolori e le sofferenze del caso: i torti mai digeriti da parte della furba Courtney Love, che ha rovinato l'amicizia (con molta probabilità anche un bel flirt) tra la Nostra e Trent Reznor dei Nine Inch Nails. E la furiosa Tori le sbatte tutto in faccia nell'energica e rock-oriented "Professional Widow". Il cuore si contorce nelle relazioni senza l'agognato "happy ending", regalandoci picchi struggenti come la meravigliosa e sommessa "Hey Jupiter", con una Tori decisamente strapazzata e sola; ma anche la malinconica "Putting The Damage On" è una toccante ballata malinconica, con una sorta di fagotto che di tanto in tanto accompagna il brano, in modo mesto e discreto. Per non parlare della dolce quanto enigmatica "Doughnut Song", che esprime anche un po' di rancore, in quella apparente voce dolce e carezzevole, che pare sussurrare questa storia agrodolce al nostro orecchio. La mancanza di relazioni positive sfociano anche nell'aggressività, come nella bellissima ed energica "Caught A Lite Sneeze", con le percussioni che si intrecciano con il clavicembalo.


Non manca mai il riferimento al lato femminile delle religioni, ingiustamente mutilato e trascurato, come nella provocatoria "Muhammad My Friend": "Muhammad my friend / it's time to tell the world / we both know it was a girl back in Bethlehem.". E per di più questa ragazza viene crocifissa e la nostra Tori parla con Maometto. Un bel mix che potrebbe scatenare le furie del più puritano tra i religiosi. Non c'è molto altro nel lungo viaggio di "Boys For Pele": tutto ruota attorno alla femminilità di Tori, alla forma femminile universale, contrapposta a quella maschile universale ed agli uomini che hanno lasciato ferite nell'americana. Con un po' di riferimenti religiosi disparati. E un tocco di cinismo e di divertissement (come in "Mr. Zebra" e "Agent Orange") non mancano mai, anzi, sono puro ossigeno in un'atmosfera a volte troppo cupa ed opprimente.


Insomma, fare un'analisi accurata traccia per traccia di quest'album sarebbe stato francamente impossibile, nonché estenuante, e non penso che mi avrebbe messo di buonumore. "Boys For Pele" è un lavoro tutt'ora difficile da digerire e un po' criptico, onestamente, in cui tuttavia riescono a risplendere piccole gemme preziose da custodire e da esaltare nell'immensa produzione della nostra cara Tori. Certo, per molti, dopo i due splendidi album iniziali, il risultato è stato un po' deludente, quasi un passo un po' più lungo della gamba. Non si può certo dire che l'amata Rossa non abbia esagerato (cosa che purtroppo diventerà un difetto fastidioso negli ultimi deludenti album), tuttavia, se lo confrontiamo con quello che è arrivato dopo... Quest'ambizione bruciante ci regala un album da considerare giustamente come uno degli (ultimi) grandi lavori di Tori Amos.





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