Tori Amos
Under The Pink

1994, Atlantic Records
Indie

Recensione di Alessandra Leoni - Pubblicata in data: 15/09/09

Visto che negli ultimi anni – non pochi – la nostra amata Rossa che suona il suo caro pianoforte Bosendorfer non sembra azzeccarne una, mi sembra opportuno anche mostrare i veri buoni lavori che hanno caratterizzato Tori Amos, un’autentica furia scatenata sul palco, ma anche un tornado di emozioni e di genialità, che l’hanno spinta sempre a sperimentare con il suo strumento d’elezione, ed a ricercare una perfezione tecnica e compositiva invidiabile, caratteristiche che hanno reso “Under The Pink” un classico nella storia della musica.

“Under The Pink” nasce con l’intenzione di voler esplorare ciò che è sottopelle – da qui nasce il titolo dell’album - , le sensazioni, i pensieri, i dubbi che ci animano nel profondo. E Tori Amos è sempre stata una grande maestra nell’interpretare i moti dell’animo. Suoi, e quelli degli altri. La delicata introduzione al pianoforte di “Pretty Good Year” ci introduce al disco: la voce gentile di Tori ci accompagna nella vicende intrecciate di vari personaggi, a partire da Greg, che scrive le lettere e brucia i suoi cd: sembra che la vita sia estremamente dura con lui, ma Tori lo sprona ad andare avanti e a pensare a cose belle, perché questa non si ferma ad aspettare. Poi un’esplosione di strumenti che accompagnano Tori per un breve tratto del brano, per tornare al solo accompagnamento del pianoforte ed alla voce carezzevole della Amos. Un brano intenso e toccante, struggente quanto basta per aprire “Under The Pink”.

Se il brano precedente ci aveva ispirato tenerezza e dolcezza, “God” esprime in modo totale l’irriverenza e la vivacità della cantautrice statunitense. Oltre al pianoforte ci sono anche gli altri strumenti ad accompagnare la sua voce, in una melodia assolutamente frizzante e allegra, e con irriverenza recita le seguenti parole: “God sometimes you just don't come through / Do you need a woman to look after you”. Uno dei temi più cari a Tori Amos è proprio la religione, complice il fatto che suo padre fosse un reverendo metodista e le avesse imposto un’educazione alquanto rigida. Lei esprime i suoi dubbi, le sue domande e le sue convinzioni liberamente, attraverso la musica che compone, stracciando qualsiasi taboo e concedendosi qualche “licenza poetica”. Il terzo brano è il più strano, il più difficile da interpretare, credo, in tutta la sua discografia. “Bells For Her” non è un brano normale e credo occorra anche la predisposizione d’animo giusta per poterlo ascoltare. In questa canzone anche il suono del pianoforte viene distorto, decostruito, portato in una dimensione superiore alla sua natura di pianoforte. Distorto, come un carillon, in mondo onirico e senza tempo, lo strumento introduce la voce di Tori ed uno dei suoi testi più difficili ed ardui da interpretare. La melodia si ripete ciclicamente, esattamente come fa un carillon, assieme al ritornello “Can’t stop what’s coming / Can’t stop what is on its way”, che ci spiega come non si possa riuscire a fermarsi di fronte alla forza della vita e degli eventi. In questo brano l’amicizia fortissima e profonda di due ragazze – presumibilmente Tori una delle due? – viene rovinata dai grandi eventi, contro i quali non si può nulla. Un brano estremamente intimo che arriva dritto al cuore e riporta alla luce memorie oscure e dolorose.

Il dolore viene lasciato da parte con il brio di “Past The Mission”, duetto con Trent Reznor dei Nine Inch Nails. Un brano liscio e piacevole, ma apparentemente superficiale, perché Tori Amos con questa canzone vuole rivendicare la forza della femminilità, specie nella sessualità e nelle relazioni amorose in genere. Con un occhio di riguardo alla figura femminile nella religione – Maria Maddalena non vi dice niente?. Non a caso è stato scelto un tema simile per un duetto con uomo, Trent Reznor, la cui voce sembra un dolce sussurro lieve in confronto alla forza esplosiva di Tori, creando un perfetto contrasto vocale, ma anche tra uomo e donna. Ecco che la dimensione personale, tragicamente intima viene riportata a galla dalla struggente “Baker Baker”, uno dei brani più belli, a mio avviso, per l’intimità e la struggente sincerità della cantautrice. C’è spazio solo per il pianoforte e per gli archi, che ricreano un’atmosfera dolorosa e tragica: è il brano della consapevolezza amara della Amos di aver deluso il cuore di qualcuno, di essere scappata da una persona che l’amava molto - in questo caso Eric Rosse, che è stato anche il produttore dei suoi primi due album, con il quale ha avuto una lunga relazione. Dopo essersi negata a lui molte volte, ed essere metaforicamente “scappata” (“I guess you heard / He's gone to L.A. / He says that behind my eyes I'm hiding / And he tells me I pushed him away / That my heart’s been hard to find” e “You came to make sure / That I'm not running / Well I ran from him / In all kind of ways / Guess it was his turn this time”), Tori ricerca quei pezzi di sé che pensava di aver perso per sempre, e disperatamente in questa canzone ammette che qualcosa nel suo petto dev’essere rimasto. Ma, in fondo, sembra esserci una piccola e flebile speranza di poter ricostruire un rapporto con l'amante deluso, di potergli dimostrare, attraverso il riscatto del proprio cuore e di quella volontà di tornare ad essere una persona tutta intera e non mutilata, che ama gioiosa, libera e di tutto cuore, che si può tornare ad essere felici insieme. Tori Amos ce l’ha fatta, attraverso momenti tormentati e tristi narrati nel successivo album “Boys For Pele”, anche se non con Eric. Ma è riuscita a far vincere il suo cuore sopra ogni altra cosa. Ed è questo uno dei messaggi più chiari di “Under The Pink”: il cuore è importante, senza quello ci si sente mutilati. Non possiamo vivere senza, anche se ci sono periodi nella nostra vita in cui sembra esserci stato strappato via. Riconosciamo quei momenti, e ripartiamo da essi per poterlo far battere nuovamente. Anche se ci costa sofferenza, anche se sembra una missione impossibile da fare, nonostante le delusioni date e subìte. Ma non si riesce a vivere senza.

Gli strascichi di questa delusione riecheggiano in “The Wrong Band”, ma non è affatto una canzone triste: infatti, dopo lo sfogo dolceamaro e mesto di “Baker Baker”, c’è quasi una strana gioia nel poter dire che ci si è sbagliati e che è arrivato il tempo di aprire gli occhi e di andare avanti. Pur utilizzando gli stessi strumenti di “Baker Baker”, la melodia suona ariosa e briosa, e la canzone scivola via in un soffio. “The Waitress” e “Cornflake Girl”, sembra strano, vanno quasi in coppia e, anche se sono due canzoni completamente differenti da un punto di vista musicale, trattano la stessa tematica: il tradimento tra donne ed il conseguente scaturire della violenza e della follia tra di esse. “The Waitress” è come un serpente: serpeggia sinuoso, con il lento cantare di Tori, quasi sussurrato, accompagnato dal pianoforte, quasi accennato, fino a quando la serpe parte all’attacco ed esplode istericamente in quell’ agghiacciante “I believe in peace, bitch”. Batteria, chitarra. Urli, ansia e tachicardia. Il lato oscuro di Tori viene fuori, in tutta la sua violenza e stranezza. E poi si placa e torna nel suo cantuccio nascosto.

“Cornflake Girl”, una delle sue hit più famose, è un crescendo di follia e di incredulità in cui tutti gli strumenti sono partecipi della pazzia generale. Nella spensieratezza del brano la vita di una donna viene messa a repentaglio per un uomo che sembra essere un’entità superiore ed onnisciente. E nella parte finale del brano, da un punto di vista compositivo e tecnico assolutamente frenetico e mostruoso, più voci sovrapposte sembrano salutare nel delirio generale la vita della stolta donna che l’aveva sottovalutata. Forse non era una così buona idea frequentare le “raisin girls”. “Icicle” è un brano coraggioso in un modo o nell’altro, perché ancora una volta, accompagnata solo dal suo Bosendorfer, Tori Amos mescola sessualità e religione in modo assolutamente ardito e in qualche modo sfacciato: vi basti semplicemente pensare al fatto che lei racconti esplicitamente di quando si trovava a cercare il piacere sessuale in solitudine mentre, di sotto, suo padre parlava di religione. L’atmosfera intima viene ricreata dalla melodia del pianoforte, in una lunga introduzione solitaria, e dal sussurro della voce di Tori, come se fosse ancora nel suo letto, in quella situazione. Lo scontro sessualità-religione è opprimente per la Amos, tanto da arrivare a declamare “Father says bow your head like the good book says / but I think the good book is missing some pages”. La primavera del corpo, della scoperta di sé contrastata dall’oppressione, dai dogmi e dagli obblighi di un libro.

La dolcissima “Cloud On My Tongue”, composta solo dalla voce di Tori, con pianoforte ed archi, è uno dei brani che riprende la consapevolezza della perdita di qualche parte di sé, ma anche della volontà di dimenticarsi del passato, degli eventi che hanno causato la mancanza e la mutilazione di sé. Ma i ricordi tornano, ciclicamente, e ci fanno turbinare e volare in cielo come le nuvole. Tori sembra alludere a sé stessa come ad un fiore che sboccia, che è stato mutilato e non riesce più a fiorire. E sembra che qualcuno dentro le abbia lasciato qualcosa di indelebile, che l’ha cambiata irrimediabilmente. Uno dei brani più toccanti e dolci di quest’album. Di fronte a “Space Dog” rimango sempre sconcertata, sia per quella sonorità quasi tribale, per quel rimbombare delle percussioni quasi fossero dentro nel mio stomaco, sia per il significato della canzone, che mi è sempre stato oscuro. Sembra che in un delirio frutto di stupefacenti la Amos ci indichi una nuova religione, un nuovo culto, quello dello “Space Dog” e del “Colonel Dirtyfishydishcloth”, quasi ad irridere tutte le altre religioni, intrappolate nel loro rigore ed austerità. Un brano decisamente divertente, che rompe un po’ con la tragicità caratteristica dei brani precedenti.

Tutti questi brani hanno mostrato la genialità e la poliedricità di Tori Amos, la sua innata bravura al pianoforte e nello scrivere testi che vadano dritto al cuore. Ma non è finita, perché l’ultimo brano “Yes, Anastasia” è un capolavoro di ben nove minuti e mezzo, dove Tori Amos mostra che gli insegnamenti classici ricevuti al conservatorio, prima di essere cacciata via, non sono andati totalmente perduti. E allora, immaginatevi in una stanza di uno splendido palazzo d’epoca d’inizio Novecento, con lucenti lampadari in cristallo, e “Yes, Anastasia” che riecheggia tra le stanze, una splendida composizione di pianoforte ed archi, dove Debussy e i grandi compositori russi si fondono assieme alla voce della nostra amata Tori, che narra le vicende di Anastasija Nikolaevna Romanova. Questo brano è in definitiva uno dei miei preferiti, perché spicca elegante come un cigno tra tutti gli altri, dalla composizione squisitamente classica e maestosa. Sembra quasi un pezzo controcorrente rispetto a tutto ciò che Tori Amos ha sempre rappresentato: sperimentazione allo stato puro, ma lei non si tira indietro quando si trova di fronte a sfide molto grandi. Il coraggio è il tema di questo brano - “We'll see how brave you are / We'll see how fast you'll be running / We'll see how brave you are / Yes, Anastasia.” - e Tori non è mai stata una persona paurosa.

Questa recensione sarà lunghissima da leggere per tutti voi, ma servirà anche a giustificare e motivare un voto così alto. Anche se, tante volte, mentre riascolto “Under The Pink, mi rendo conto di quanto sia difficile attribuirgli un voto matematico che sia oggettivo, poiché un album del genere trascende la ragione e la matematica (ma credo che questa regola valga per qualsiasi classico, di qualsiasi genere).

Da qualche parte, questa Tori che fa sussultare il cuore di tutti noi esiste ancora…



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