Tori Amos
Abnormally Attracted To Sin

2009, Universal
Indie

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 22/05/09

C’è una speranza inossidabile che lega tutti i fan di Tori Amos da quasi dieci anni a questa parte, una speranza che non viene scalfita nemmeno quando leggi annunci che riguardano un nuovo album di 17 tracce (quindi i soliti 75 minuti di durata minima, e di materiale alquanto mediocre alternato - si spera - a materiale decente, perché un “Boys For Pele” mica nasce tutti i giorni), oppure quando scopri che dietro il mixer del nuovo parto ci sarà per l’ennesima volta il marito Mark Hawley (uno dei più grandi incompetenti che mi sia mai capitato di sentire su cd, semplicemente per il fatto che il Nostro non conosce il significato della parola “volume”, e per il fatto che il bilanciamento dei suoni, per lui, è un optional di cui si può fare volentieri a meno…). Se Tori Amos è “Abnormally Attracted To Sin”, noi suoi fan irriducibili da cosa siamo ancora abnormalmente attratti, quando si parla della sua musica? Solo da questa speranza, evidentemente: la speranza che, dopo tre fallimenti consecutivi (praticamente, è dal già scricchiolante “To Venus And Back” che la Rossa non produce niente di vagamente decente), la nostra Dea dell’indie pianistico possa tornare ad essere quella che era, ovvero una donna in grado di sublimare le emozioni di una (drammatica) quotidianità in un modo davvero unico, veicolando, di pancia, messaggi davvero forti, impossibili da ignorare.

Quando però, al posto di un lavoro quantomeno sufficiente che possa far spostare l’obiettivo della rinascita di almeno un altro paio d’anni, ti ritrovi invece per le mani l’album più brutto mai scritto nella sua folta discografia, ti girano i cosiddetti "cinque minuti", ed a ragione direi! L’impressione che si ha ascoltando questo lavoro è che Tori si sia messa al piano, suonando a caso il suo strumento d’elezione. Dopo aver messo insieme una linea melodica vagamente ascoltabile, ha chiamato a sé il resto della band ed il marito per mettere tutto su cd. Nella legge globale che governa il caso, su 17 esperimenti può anche capitare che qualcuno riesca vagamente decentemente, ma non per talento o ispirazione... Magari! Solo per pura fortuna!

Capita quindi che, in un’accozzaglia sonora senza capo né coda (e pure prodotta male), si ritrovi vagamente la Tori del capolavoro “From The Choirgirl Hotel” (dov’è quella donna oggi, Tori?) nell’iniziale “Give”, oppure che la pacata eleganza degli episodi meglio riusciti di “Scarlet’s Walk” rivivino leggermente nel primo singolo “Welcome To England”, oppure ancora che il pop scanzonato di “500 miles” faccia, quantomeno, trascorrere i quattro minuti della canzone con insolita leggerezza (per quanto riguarda questo album), con un bel sorriso sulle labbra. Inezie comunque: questo album è stato già difficile ascoltarlo una prima volta per mio puro sfizio personale, un’agonia soffocante il doverlo riascoltare per consolidare le idee che hanno portato alla stesura di questa recensione.

Insomma, ragazzi… Forse è davvero il caso di realizzare che Tori Amos è alla frutta, che non tornerà mai più ad essere quella di prima… D’altronde, come sarebbe possibile? Non c’è davvero più spazio per il dolore che porta alla nascita di canzoni come “Precious Things” o “Father Lucifer”, non c’è più spazio per la disperazione che porta ad una “Hey Jupiter” piuttosto che ad una “Northern Lad”. Oggi Tori è sposata, felice con la sua bambina… La sua unica preoccupazione è quella di far uscire un cd ogni due anni, sperando che i suoi fan continuino ad aggrapparsi a quella speranza immortale di cui ho scritto all’inizio, in modo tale da rimpinguare le casse per potersi continuare ad iniettare botox in tranquillità per i prossimi due anni, ovvero prima del parto dell’ennesimo, terribile album.

L’unica consolazione che mi rimane è questa, quando penso oggi a Tori Amos: che ci sarà qualcuno come gli Y Kant Turi Read che riusciranno a trovare la forza necessaria per farci cedere in una risata consolatrice. Di cosa sto parlando? Seguite questo link e lo scoprirete (e, già che ci siete, cliccate su “ulteriori informazioni”, in modo da leggere il testo). Se “Strong Black Vine” suonasse così bene sul cd come la versione Turi che vi ho appena proposto, il voto in fondo all’articolo sarebbe stato decisamente più generoso. Sì, sto scherzando… ma fino ad un certo punto: nel senso che ritengo seriamente l’opera della parodia italiana di Tori superiore a Tori stessa, oramai. D’altronde, non si dice forse che “è meglio ridere per non piangere”?



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