Anathema
Alternative 4

1998, Peaceville Records
Alternative Rock

Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 21/05/09

Recensione a cura di Salvatore Blandizio

 

“It’s killing you, you’re killing me
I’m clinging on to my sanity
All I need is a short term remedy
Come and hide me from this terrible reality...”


Alternative 4” rappresenta lo spirito ed il cuore degli Anathema. È un album dotato di una dolcezza e di una sensibilità struggenti che esprimono il carattere intenso ed intimista della band inglese, da anni capace di trasportarci in un sogno che avanza inerte nell’anima. Il full-length datato 1998 rappresenta la svolta definitiva nella creatività del sound anathemiano, che, grazie a quest’opera, esula dalle dimensioni oniriche ed opprimenti del doom per attraversare le soglie di un rock più alternativo e sperimentale. Ci troviamo di fronte ad un’opera pregna di malinconia e di solitudine, dipinta in un’atmosfera fragile e raffinata, che, proprio a causa della sua indole emotiva e profonda, richiede soprattutto riflessione e ricerca interiore per essere colta. “Alternative 4”, dunque, è un insieme privo di quella "durezza" che caratterizzava i precedenti lavori, anche da un punto di vista lirico e musicale; è piuttosto un viaggio verso la coscienza dell’uomo, musicato e novellato con un lirismo sublime e trascendentale.


I testi affrontano tematiche legate alla solitudine, parlano amori spezzati, riflettono sulla condizione dell’individuo, sul sentimento della fiducia… Questa meditazione non è altro che un espediente che consente all’uomo di plasmare una relazione con il proprio essere: per comprendere se stesso, esso ha bisogno di scorgere la propria essenza, la propria spiritualità in un ipotetico "sottosuolo". E per poter compiere tale passo è necessario che esso capisca la propria natura… Sono proprio questi i temi che, nel 1998, affligono i fratelli Cavanagh ed i loro compagni di squadra (il batterista Shaun Steels ed il bassista Duncan Patterson, oggi leader del progetto folk/ambient Íon), che, attraverso il loro classico connubio tra musica e malinconia, ci accompagnano nell’Arte immersa nelle note di “Alternative 4”.

 

Dopo una breve introduzione affidata a “Shroud Of False”, si entra nel pieno di “Fragile Dreams”, piccolo gioiello che potrebbe far rabbrividire un certo tipo di ascoltatori dal palato raffinato, ma anche gli amanti del rock "di classe". Quella che forse è una delle migliori  composizioni degli Anathema sfocia in un crescendo di potenza che emerge pian piano dai suoi solchi, grazie ad una splendida alchimia di chitarre e batteria rullante, trovando il proprio confine in un triste arpeggio in cui "fragili sogni" si spengono, per risorgere nella più orribile realtà. “Empty”: il vuoto più assoluto. La nullità che si scorge nell’aria è a tratti inquietante, l’agonia ci pervade, come se fossimo sotto l’effetto di una morsa (“Empty vessel under the sun wipe the dust from my face, another morning black Sunday coming down again…”).

Si giunge finalmente al capolavoro dell’intero disco, “Lost Control”. L’atmosfera è cupa, grigia, come a sottolineare l’importanza e la profondità delle parole sospirate da Vincent Cavanagh (“Life… has betrayed me once again…”). La bellezza di questo brano è finalizzata prevalentemente a richiamare attorno ad essa un clima buio, scostante, assorto in quel sinuoso violino che appare nel finale rendendo il pezzo quasi surreale. Come protagonista, poi, troviamo “Inner Silence”, una piccola poesia narrata con l’ausilio di sei semplici versi, descrizione di un amore interrotto a causa della morte; da qui si riesce ad intravedere l’animo più delicato ed emotivo del quartetto inglese.

 

Si giunge, infine, nella zona più psichedelica dell’intero album, questo soprattutto per volere del genio di Duncan Patterson, il quale, in seguito alla pubblicazione di questo disco, abbandonerà la band di Liverpool per dedicarsi a tempo pieno al progetto Antimatter (insieme all’amico Mick Moss). La traccia che dà il nome all’album è il pezzo più psichedelico che gli Anathema abbiano mai composto, un brano a tratti conturbante, quasi sinistro. In sottofondo si sollevano dei cori sfumati: il clima è talmente rarefatto da sembrare irreale. L’arduo compito di chiudere questa splendida opera spetta a “Destiny”, deliziosa armonia costruita su una tastiera languida e fluida che avvolge l’ascoltatore in una dimensione onirica, come se questo fosse accarezzato da una splendida visione.
 
Questo disco è riuscito a regalare, senza troppi fronzoli, momenti di pura poesia, da considerarsi un pilastro della carriera della formazione inglese, soprattutto per quanto attiene all’emotività, al lirismo ed all’intensità immersa in ogni singolo brano. Dieci perle assolute di arte raffinata, di emozionalità umana e di disperata fragilità.

PS: Una piccola nota per i collezionisti. La versione rimasterizzata del 2003 contiene quattro tracce bonus, due delle quali sono cover di Roger Waters, per la precisione brani contenuti in “The Final Cut” dei Pink Floyd. Per quanto riguarda i due episodi restanti, si tratta di una cover dei Bad Religion (“Better Off Dead”) e di un altro tributo alla storica band inglese (“Goodbye Cruel World”), tratto dal celeberrimo disco del 1979 “The Wall”. Assolutamente splendida la rivisitazione dagli Anathema: la voce di Vincent, unita a quella della controparte femminile Michelle Richfield, ci regala un degno tributo ad uno dei gruppi più importanti del rock. Poche band hanno avuto l’onore di rielaborare in maniera così profonda l’arte di una realtà ormai divenuta leggenda come quella dei Pink Floyd. Gli Anathema ne raccolgono, forse ancor più di tanti altri loro discepoli, la preziosa eredità.





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