Anathema
Judgement

1999, Music For Nations
Alternative Rock

Recensione di SpazioRock - Pubblicata in data: 18/12/16

Marco D'Ambrosio 

 

Nel 1999, solo un anno dopo un disco importante come "Alternative 4", arriva "Judgment", in un momento particolare della vita degli Anathema, che hanno fatto del cambiamento il proprio marchio di fabbrica e, probabilmente, il proprio punto di forza. E se si vuole intendere il giudizio del titolo come autoreferenziale, la band ne esce assolta in formula piena, riuscendo a partorire quello che forse è il suo capolavoro.

 

Il primo cambiamento che i fratelli Cavanagh hanno dovuto affrontare è stata l'uscita di Darren White, cantante della band per le prime due release (quelle più canonicamente doom-metal). Dopo aver contribuito a creare e definire il genere doom, insieme agli albionici colleghi Paradise Lost e My Dying Bride, infatti, gli Anathema si sono progressivamente spostati verso altri territori, affidandosi alla voce di Vincent Cavanagh, che, preferendo un cantato pulito al growl di White, ha contribuito alla virata gothic, iniziata in "Eternity" (1996) e completata nel già citato "Alternative 4", ultimo album per Duncan Patterson, bassista e fino ad allora compositore principale del gruppo - ma non unico: in "Alternative", per esempio, sei pezzi su dieci erano a firma Patterson, ma con delle eclatanti eccezioni, come "Fragile Dreams", canzone-inno con cui la band di Liverpool ancora oggi abitualmente chiude i propri live set, scritta da Danny Cavanagh, fratello maggiore di Vincent, che da "Judgment" in poi raccoglierà l'eredità di Patterson, lasciando però spazio sia al fratello che al batterista, John Douglas.

 

Quest'anima composita è la chiave di "Judgment", che si apre con l'arpeggio di chitarra cupo e incalzante di "Deep", canzone scritta a sei mani dai due fratelli Cavanagh e dal bassista Dave Pybus. La canzone, come tutto il disco, si propone di andare nel profondo dell'ascoltatore e scavare ancora di più quei sentimenti di ansia, angoscia, malinconia, che permeavano "Alternative 4". Meno monolitico del predecessore, che era incentrato sui temi del tradimento e della fiducia mal riposta, "Judgment" sposta la lente critica verso il proprio essere, per darne una visione spietata. Così, in una strofa successiva della canzone d'apertura, Vincent canta: "Open laughter held in distant days / Eternal stars have changed / I know that it can't be the same / there's no lament for you tonight." Come le stelle eterne, anche gli Anathema sono cambiati, e si sente. Il cambiamento prosegue nelle due tracce successive: la dura "Pitiless", col suo conclusivo assolo di chitarra distorta, che sfocia nella più distesa, ma sempre carica di cinica rassegnazione, "Forgotten Hopes", dialogo (interiore? Fra Dio e un uomo? Fra due uomini?) con echi dello spleen di Baudelaire, dove una voce, su un tappeto di chitarra acustica, si rivolge al suo interlocutore, che marcisce nel suo vuoto guscio alcolico, chiedendogli, in un crescendo emotivo e musicale, "Ti ho punito per aver sognato?" (i fragili sogni di Alternative 4?).

 

Un breve momento di pausa dall'enorme portata emotiva del trittico di apertura del disco lo concede la misteriosa strumentale "Destiny is Dead". Sarà questo brano a condurci al cuore pulsante di "Judgment", che inizia con "One Last Goodbye", elegia delicata, struggente e melodicamente perfetta che Danny dedica alla memoria della madre, scomparsa un anno prima. Il dolore espresso in maniera così semplice, e per questo ancora più vero e insopportabile, trova quasi un'assoluzione, o una consolazione, nella successiva "Parisienne Moonlight", dove le chitarre cedono il posto al pianoforte, e una voce femminile, quella di Lee Douglas (sorella del batterista, che diventerà sempre più fondamentale, sia nell'attività in studio che in quella live della band), sussurra in un canto sinuoso e catartico: "I know I need you, I want you to be free of all the pain you have inside." Ma in due minuti la magia si conclude per lasciare spazio alla title track, che probabilmente segna il climax del disco. Il booklet include una lunga parte in prosa prima dell'inizio vero e proprio del testo del brano, a sottolinearne l'importanza. Dal punto di vista musicale, un solenne incedere di chitarra accompagna la voce di Vincent, poi raggiunta da una batteria battente, che diventa sempre più veloce e frenetica, trasformando il pezzo con un cambio di tempo in una folle e feroce cavalcata senza speranza per chitarra, percussioni e urla di Vincent, perfettamente calato nel personaggio "in ginocchio" di cui parla il testo, fino al finale, improvviso e dissonante, che lascia spiazzati e senza fiato.

 

Nell'economia di un disco, la traccia successiva sarebbe un riempitivo, ma "Don't Look Too Far", in cui ritroviamo la voce di Lee, che si unisce a quella di Vincent nel ripetere il titolo della canzone più e più volte, come un mantra, si rivela un pezzo elegante, soffuso nella strofa e sporcato da spunti di psichedelia nel ritornello. L'altro picco emotivo dell'album, "Emotional Winter", racconta, come "One Last Goodbye", di una perdita, e lo fa aggiungendo alle suggestioni già multiformi del disco una splendida intro, debitrice del progressive atmosferico dei migliori Pink Floyd, spezzandosi nel riverbero della voce di Vincent, che ripete sconsolata "We will never feel again...". La successiva "Wings of God", scritta da John Douglas, è la traccia più lunga dell'album; il testo, che parla di alienazione e solitudine, viene declinato su una summa musicale di quello che è l'intero disco: l'inizio rock più "classico" vira verso schegge psichedeliche e venature progressive. Sempre di alienazione parla la successiva e acustica "Anyone, Anywhere", pezzo egregiamente arrangiato per chitarra acustica e pianoforte, mentre la strumentale "2000 & Gone" chiude il lungo viaggio del disco, che ripaga l'ascoltatore sia in termini musicali che emotivi, e ascolto dopo ascolto diventa qualcosa che ci si porta dentro, e da cui è difficile staccarsi, tanto che anche i loro tour più recenti spesso includono un "Judgment set", dove vengono eseguite tre canzoni di questo album di seguito ("Deep", "Emotional Winter" e "Wings of God", il più delle volte), ed è un appuntamento attesissimo dal pubblico, anche a più di quindici anni di distanza dall'uscita dell'album.

 

Vincent, nell'introdurre questo set in una tappa italiana di un loro tour, ha affermato che il disco è stato registrato proprio in Italia (ai Damage Inc. Studios di Ventimiglia), e ha ricordato "bellissimi paesaggi...e ottimo vino! Tanto, tanto vino...a ripensarci, mi stupisce che siamo riusciti a registrarlo!". Che sia merito del vino italiano o meno, siamo tutti felici che ci siano riusciti. Prosit, Anathema.





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