Machine Head
Catharsis

2018, Nuclear Blast
Groove Metal

Recensione di Isadora Troiano - Pubblicata in data: 25/01/18

Siete pronti alla catarsi? La risposta giusta è: probabilmente no. Perché "Catharsis", il ritorno dei Machine Head, a quattro anni dall'ultimo lavoro "Bloodstone & Diamonds", racchiude in sé l'imprevedibilità ed è sicuramente uno di quei dischi che spaccherà in due la critica e farà parlare di sé negli anni a venire.
 
Dopo "Bloodstone & Diamonds", la linea tracciata dalla band di Robb Flynn sembrava abbastanza netta e definita: melodia quanto basta, una buona dose di controtempi, raffinatezze tecniche e soprattutto riff in abbondanza. E questo è ciò che ritroviamo in "Catharsis", insieme a tantissimi altri elementi, molti dei quali assolutamente inaspettati. Con questo disco, i Machine Head si sono liberati di tutto, in particolar modo dei filtri, ed è forse per questo motivo che ci ritroviamo tra le mani un album di 15 brani per oltre 70 minuti di musica in un periodo in cui ben pochi azzarderebbero una simile durata per un full-length. Lo stesso Robb Flynn l'ha definito, parlando con noi di "Catharsis", un corrispettivo musicale del "Signore degli Anelli", in termini di lunghezza.
  
Un bell'impegno, insomma, sia per la band che per chi ascolta, perché già con le prime note dell'opener "Volatile", non si ha assolutamente idea di quello che accadrà. Il primo pezzo richiama decisamente lo stile del disco precedente: immediato, graffiante, con un riff possente e un cantato urlato e sporco. Il brano nasce dalla notizia degli scontri razziali in Virginia dello scorso anno, un elemento da tenere in considerazione poiché questo lavoro, a detta di Flynn, è profondamente impregnato dei fatti di cronaca americana degli ultimi anni.  Segue la title track, in cui si alternano momenti melodici, quasi eterei, con tanto di archi in sottofondo, a parti più heavy, con ritmi serrati e rifferama prepotente. La traccia era stata rilasciata in anteprima e già da questo primo assaggio la critica aveva espresso opinioni decisamente discordanti sulle novità di casa Machine Head.
 
Il mood sembrerebbe essere lo stesso anche nella seguente "Beyond The Pale": tra fughe di chitarra quasi in stile classico e la batteria di McClain pachidermica e marciante a fare da base, ci scappa anche l'ormai sdoganatissimo plagio del fraseggio iniziale, praticamente identico a quello di "Love" degli Stapping Young Lad. Questi elementi non hanno fatto che contribuire sia all'aspettativa per l'uscita del disco che all'inasprimento delle critiche alla band di Flynn.  Ma lo spettacolo deve continuare e la strada è ancora lunga da percorrere: così tanto che c'è anche un piccolo viaggio nel tempo. Sì, perché con i due brani successivi, "California Bleeding", ma in particolare con "Triple Beam", si viene catapultati direttamente nel nu metal dei primi anni 2000. In quest'ultimo pezzo il cantato svolta totalmente verso una specie di rap parlato che non può non ricordare il periodo del molto discusso "Supercharger", probabilmente uno degli album meno apprezzati della storia della band. Le parti di chitarra ridotte all'osso e la base ritmica contribuiscono all'effetto rétro di questa porzione di album e, in tutta onestà, si tratta di una parentesi di cui probabilmente si sarebbe potuto fare a meno.
 
 
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La traccia successiva, "Kaleidoscope", ultimo singolo rilasciato dalla band, riporta il lavoro su un piano più attuale e strizza smaccatamente l'occhio al live con il suo ritmo incalzante e i ripetuti inviti a levare al cielo i propri middle fingers: è un brano serratissimo, incentrato molto sulla voce di Flynn e sull'immediatezza del suono. Ulteriore cambio di stile e registro con la successiva "Bastards": la corsa rallenta improvvisamente e si apre un momento più lirico e riflessivo, in particolare per i temi trattati, ancora una volta legati all'attualità e alla critica della società americana. Il brano è un crescendo di arpeggi di chitarra con la parte elettrica unita a una base acustica che fa da filo conduttore, mentre i buoni Jared MacEachern e Dave McClain creano l'atmosfera con un tappeto ritmico discreto, che sembra quasi tenuto in disparte.
 
A metà disco, i Machine Head recuperano terreno con due piste che riportano alle loro radici groove metal, tra le quali spicca "Screaming At The Sun", un pezzo strutturato, dal suono ben piazzato, grazie al riff portante e a una ritrovata sezione ritmica; il picco dura poco perché con "Behind a Mask", ma soprattutto con l'epica "Heavy Lies The Crown" la marcia viene nuovamente rallentata. Dalla prima canzone dal sapore di ballad, si passa alla seconda, quasi 9 minuti densissimi tra archi, melodie ancora una volta ispirate alla musica classica, senza dimenticare il groove, le chitarre affilatissime e l'attitudine alla pesantezza, una strada in ascesa che porta dalle cavalcate metal a un finale lento e martellante.
  
Arriva poi un terzetto di canzoni di quelle con l'acceleratore a tavoletta: con la cadenzata "Psychotic" si ritorna sul suono classico dei Machine Head che conosciamo bene, mentre la successiva "Grind You Down" è un altro di quei pezzi dal sicuro impatto live, da regalare al pubblico per sfogare le proprie energie, mentre la voce, violentissima, di Robb Flynn conduce la danza. Chiude la serie "Razorblade smile", casinista e punk rock, con tanto di interludi quasi rappati e stacchi che ricordano vagamente i Motorhead.  In chiusura, la spiritata "Euology" che riprende la precedente "Bastards" con la sola voce di Flynn e una base leggerissima a farla da padrone per i primi 3 minuti del brano: solo allora entrano le chitarre, il basso e la batteria, in una lentissima spirale ascendente, chiusa da cori spettrali.
  
"Catharsis" fa già discutere ferocemente: dai pochi brani resi pubblici non è possibile cogliere il lavoro immane che si cela dietro questo disco. Non si tratta di un'opera di facile ascolto e di presa immediata: c'è tanto, troppo da digerire e questo, all'ascoltatore medio, potrebbe non piacere. Ci sono parentesi evitabili e molte ripetizioni, nello stile e nella tecnica. Ma c'è anche tanta potenza, tanta voglia di tirare fuori tutto, ma proprio tutto quello che si ha a disposizione: la rabbia, la forza, il dolore, e l'intento di sbatterli in faccia al mondo, senza filtri, senza risparmiarsi e forse senza neanche pensare troppo a ciò che può piacere al pubblico. Alcune scelte possono essere discutibili, manca, e si sente in vari punti, una costante in questo mastodontico corpus, ma bollare "Catharsis" come una brutta prova della formazione statunitense sarebbe di sicuro superficiale e poco obiettivo, anche e soprattutto alla luce delle capacità dei musicisti che ci si trova davanti.




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