Foto copertina: Mark Seliger

Well, I’m living in a foreign country
But I’m bound to cross the line
Beauty walks a razor’s edge
Someday I’ll make it mine

Parlare della musica di Bob Dylan ci espone spesso e volentieri al rischio di rimanerne schiacciati dal peso di un’artista poliedrico che ha venduto oltre 125 milioni di dischi, vinto un Nobel per la Letteratura («per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone americana»), 10 Grammy Awards, Oscar, Golden Globe, Pulitzer. Ma c’è un lato di questo gigante della musica nascosto ai più, quella di artista visuale. I quadri, i disegni, le sculture e le serigrafie del Menestrello di Duluth, in mostra al museo Maxxi di Roma fino al 30 aprile 2023, formano “Retrospectrum”, la prima retrospettiva europea che racconta le opere visive create in cinquant’anni di attività da una delle più importanti icone culturali del nostro tempo.

Mentre approcciamo corridoio nero progettato dall’architetta Zaha Hadid, in molti si domandano curiosi cosa sarà quell’ammasso di ferro appeso alle pareti che anticipa l’ingresso alla mostra. Scansata la tenda che ci separa dall’ingresso, si viene subito accolti dalla voce di mr. Robert Allen Zimmermann che ci introduce alla prima sezione della mostra, gli Early Works: una serie di disegni degli anni Settanta nei quali Dylan prende nota della realtà che lo circonda, dove ogni cosa a portata di mano diventa immagine, disegnando a piena pagina figure e oggetti. Una stilizzazione flessuosa e minimale di pacchetti di Marlboro, figure umane, automobili, paesaggi, insomma ciò che capitasse a tiro. Un incipit in cui risiede la chiave del suo multisfaccettato talento artistico, che non appartiene a un’arte piuttosto che a un’altra, non sta nel saper usare le parole anziché i colori, o la chitarra e il piano anziché matite e pennelli. Il vero talento di Dylan è nel saper dare forma a un mondo caotico, trasformare anche l’oggetto più mondano in una pietra preziosa, catturare quella bellezza che cammina sul filo del rasoio che separa l’ordinario dalla sua unicità.

Quando dagli Early Works si passa ai “The Beaten Path” anche lo stile inizia a delinearsi: la raffigurazione delle vestigia degli Stati Uniti anni ‘60, con le enormi insegne dei motel, i luna park abbandonati, le auto d’epoca ma soprattutto quella route ‘66 percorsa così tante volte in lungo e in largo per il Minnesota e oltre. “Restare fuori dal mainstream e viaggiare per strade secondarie”: così Dylan commenta il suo ciclo pittorico. “Credo che la chiave per il futuro sia nei resti del passato. Che devi padroneggiare gli idiomi del tuo tempo prima di poter avere una qualsiasi identità al tempo presente. Il tuo passato inizia il giorno in cui sei nato e ignorarlo significa ingannare te stesso su chi sei veramente.”

I colori vanno dai grigi cieli delle città metropolitane al rosso incendiario dei tramonti polverosi del Minnesota. Da qui ci si rende davvero conto del talento pittorico di Dylan: pennellate accese riempiono quadri di enormi dimensioni, dipinti tra il 2012 e il 2021, che raccontano l’immaginario epico di un’America da film, dove ogni strada si perde all’orizzonte e in quei paesaggi sembra di esserci già stati. Due enormi trittici in particolare rubano la scena ma non manca un accenno all’Italia con un quadro dal titolo “Quando dipingo il mio capolavoro”: una raffigurazione della scalinata di Piazza di Spagna.

“Cosa fa di un bel disegno un bel disegno? Le linee giuste nei posti giusti. Cosa fa di un testo un buon testo? Le parole giuste all’interno della giusta melodia”. Una serie di fogli scritti appesi al muro. Alle nostre spalle il videoclip di “Subterranean Homesick Blues” In cui Dylan lascia cadere, una dopo l’altra, le parole che componevano il testo del brano del 1965 e l’opera prende vita. Poi i testi delle canzoni più famose di Dylan diventano disegni su cartoncino che raccontano un’intera canzone in un’immagine. Un uomo abbraccia una donna in “To Make You Feel My Love” e dall’altro lato la grafia di Dylan ne scrive il testo, i cancelli di un cimitero in “Knocking On Heaven’s Door”.

La meticolosità è un esercizio, inteso come continua inclinazione a vedere e ad ascoltare, con cui Dylan si confronta insieme con la pratica artistica, puntando lo sguardo con urgenza sulle cose da raccontare, e queste all’occhio vigile dell’artista, possono trovarsi ovunque. L’ispirazione scaturisce sia da fonti letterarie che artistiche – come Hemingway e Hopper – sia da contesti familiari, come per la collezione parziale di sculture in ferro, Ironworks, legate ai ricordi d’infanzia vissuti nelle miniere del Minnesota settentrionale – da luoghi e incontri, come una serie di schizzi realizzati durante le tournée negli Stati Uniti, in Europa e in Asia a partire dal 1992 e poi trasformati in dipinti ed esposti nella sezione The Drawn Blank. Da qui si passa alle copertine iconiche di celebri riviste (con il progetto Revisionist) ridisegnate con la tecnica della serigrafia, a film cult che ispirano il lavoro condotto durante la pandemia con la sezione intitolata Deep Focus, dall’omonima tecnica cinematografica, forse tra le più affascinanti dell’intera mostra. L’espressività dei soggetti a volte felici, a volte depressi, è dipinta da una prospettiva quasi rubata, quella di un voyeur capace di catturare l’umanità delle persone e restituire uno sguardo unico.

Con le sue otto sezioni, Retrospectrum è la restrospettiva più completa del Dylan artista (Curata da Shai Baitel) capace di restituire cinquant’anni di attività tenuta quasi per se, e al contempo consente di entrare in contatto con la creatività di un’artista in continua trasformazione della sua personalità e delle sue opere. Queste subiscono cambi di tecnica e rivisitazioni in modo che la stessa immagine possa suggerire sensazioni ogni volta nuove, ogni volta con una prospettiva unica che ne racchiude in sé altre mille.

“Tutto quello che posso fare è essere me stesso: chiunque io sia” dichiarava mr. Zimmermann in un’intervista del 1995, e poi, 25 anni più tardi, nell’ultima fatica in studio “Rough and Rowdy Ways”, giunge a un’importante conclusione, quella di “essere una moltitudine”. Impossibile dargli torto.

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