Articolo a cura di Ludovica Iorio e Simone Zangarelli

Tre artisti provenienti da “mondi lontanissimi”, tre stili differenti, tre strade che si incontrano solo alla fine. Ciò che li accomuna non è soltanto una data – il 18 maggio – ma il processo interiore che ad essa conduce, le riflessioni sulla vita, la morte come momento di passaggio. Il nostro intento è cercare di ripercorrere i punti salienti dei loro vissuti e descrivere il pensiero che li ha mossi, poiché relativamente ai grandi artisti a mancare sono le (giuste) parole.

Ian Curtis

Un’anima sensibile quella della voce dei Joy Division, cresciuta in fretta, tra la voglia di toccare il cielo con un dito, e le responsabilità familiari e i problemi di salute che lo ancoravano a terra. Un’anima che nel clou della giovinezza viene colpita dal “grande male” epilettico, con attacchi imprevisti ad ampie scosse, al punto da mimare i movimenti di una danza da lui inventata sul palco, l'”epilepsy dance“, tra realtà e simulazione, difficilmente distinguibili l’una dall’altra. In “She’s Lost Control” è il suo occhio esterno a descrivere le convulsioni di un’amica, anche lei affetta da epilessia, a cui aveva assistito, con un’empatia tale da identificarsi nella sua sofferenza. La malattia di Ian diventerà centrale nella storia del gruppo tanto che la copertina di “Unknown Pleasures”, che in realtà raffigura una serie di onde elettromagnetiche prodotte da una pulsar, vista da una prospettiva clinica sembra mimare gli spikes neuronali registrati da un elettroencefalogramma durante le crisi. La frustrazione per l’assenza di coscienza durante quest’ultime e l’interfacciarsi con i postumi innescherà un circolo vizioso depressivo, complice il continuo utilizzo di fumo e alcol, lo stile di vita frenetico on the road e la mancata aderenza alla terapia.

E’ il bassista e amico Peter Hook che ci racconta i retroscena dei live, con crisi interminabili che interrompevano i concerti, o l’umore deflesso e la noia che faceva da sfondo ai momenti di autolesionismo. Ian sminuiva e fingeva di star bene, non voleva che la sua malattia interferisse con il suo percorso musicale e con quello del gruppo: era sempre pronto a sostenere gli altri e a sorrider loro, con una certa mutevolezza camaleontica in base alle persone e alle circostanze. Questi bianco e nero perenni fanno da sfondo anche all’opera postuma “Closer”: la morte vista a distanza ravvicinata non fa paura, diventa anzi quasi una forma d’arte, come testimonia la tomba del cimitero monumentale di Staglieno raffigurata sulla copertina. La sua continua ricerca di redenzione e i rimandi biblici a una dimensione ultraterrena di paradiso (per esempio in “Passover”) vengono messi in contrapposizione al suo inferno vissuto sulla terra, reso ancora più difficoltoso dalla tormentata situazione sentimentale, emblematica nella celebre “Love Will Tear Us Apart”: “Quando la routine morde forte e le ambizioni sono basse/ E il risentimento aumenta ma le emozioni non cresceranno/ E stiamo cambiando i nostri modi, prendendo strade diverse/ L’amore, l’amore ci farà a pezzi di nuovo“.

Ian si impiccò il 18 maggio 1980, dopo un uso smodato di caffè e liquori, con gli occhi volti verso il film “Stroszek” di Werner Herzog e le orecchie a “The Idiot” di Iggy Pop. Un messaggio finale: “In questo istante vorrei essere morto. Non riesco più a lottare“; il giorno successivo sarebbe dovuto partire con il gruppo alla volta dell’America.

Ho camminato sull’acqua, corso attraverso il fuoco / Non mi sembra di sentirlo più
 / Ero io, stavo aspettando me stesso / Sperando in un qualcosa in più” (“New Dawn Fades”)

Chris Cornell

Chris Cornell era affascinato dalla morte e non ne ha mai fatto mistero, né con i Soundgarden di “The Day I Tried To Live”, né con gli Audioslave né tantomeno con i Temple Of The Dog e la loro “Say Hello 2 Heaven”. Un gioco pericoloso verrebbe da pensare, ma questo tira e molla con l’oscurità ha assunto tutti gli aspetti fuorché quello dello scherzo. Non si può scherzare con qualcosa che ti attrae così pericolosamente e ti allontana così tanto dal mondo. Piuttosto prove generali di epilogo, l’esorcismo delle paure tramite la forma dei sogni: sagome irregolari tanto malleabili da poterci calare al loro interno ma altrettanto criptiche da non capirne la portata. Così il serpente che due volte ritorna in “Black Hole Sun” potrebbe far riferimento a Nietzsche o semplicemente essere un’esperienza vissuta, il “libro pieno di morte” di “Like a Stone” potrebbe essere un rimando a una Bibbia che si ferma prima della resurrezione di Cristo oppure un’allusione a una ricerca di fede, d’altronde i rimandi religiosi nel testo non mancano. Il difficile rapporto con la droga e con le dipendenze, descritte come “Pretty Noose”, alludendo al suicidio e alle relazioni tossiche avute in passato, lo hanno sempre spinto a osservare la soglia del non ritorno e a tornare indietro, una soglia mai oltrepassata fino a quel 18 maggio 2017. C’è chi dice sia il prezzo da pagare per una sensibilità così spiccata ma sarebbe più una condanna che un dono. Piuttosto l’adrenalina di spingersi verso mete che ad altri sono proibite, il talento di saperle raccontare con inarrivabile potenza, il coraggio di portare il peso della salita sulle proprie spalle. Le sue parole hanno offerto speranza agli altri anche quando lottava per trovare da solo un senso. “Il passato è come una corda intrecciata“, ha cantato in “Through The Window” del 2016. “Ogni momento si avvolge strettamente all’interno.

Franco Battiato

Ha abbracciato tutte le forme musicali Franco Battiato, e le ha fatte proprie, dalle sonorità progressive e impermeabili di “Fetus”, alla sperimentazione in salsa new-wave dell'”Era Del Cinghiale Bianco” e le altissime vette pop di “Patriots” e “La Voce del Padrone”. Era cittadino del mondo, la sua casa in ogni luogo ma le sue radici erano ai piedi dell’Etna. In tutto questo, e soprattutto nell’ultima fase di carriera, la passione per la filosofia, pastura esistenziale che in musica diventa cibo per l’anima da dare a nutrimento per chi vuole ascoltarla.

Un patto implicito da stabilire: accettarne il mistero. Chi dice di capire Battiato o non l’ha mai davvero ascoltato o mente. Ed è nel mistero che i Tre si trovano a dialogare più che mai, tre anime provenienti da “mondi lontanissimi” ma in grado di ricorrere al linguaggio universale fatto di suoni e ritmi. E quale mistero c’è di più grande se non quello della morte? Forse solo quello dell’aldilà. Cosa ci aspetta dopo il passaggio in questa “distesa di sale“? Un tema che Battiato non abbandona mai anche in relazione all’amore (“Perché ho bisogno della tua presenza / Per capire meglio la mia essenza“) come se dal sapere scaturisse la serenità. Una verità ricercata con inesauribile coerenza, trascritta in testi senza istruzioni per l’uso, spesso criptici. Scriveva per sé e – almeno su questo – è sempre stato molto chiaro. I compromessi non interessavano, le facili convinzioni non facevano per lui. La verità (se ce n’è una) è lontana da noi, trascendentale, inafferrabile ed eterea. Da qui la passione per la metafisica, la ricerca di quel “Centro di Gravità” che non è mai permanente insegnatogli da Gurdjieff, dal quale mutuò un interesse nella reincarnazione cui credeva timidamente. “Siamo impermanenti e dobbiamo abituarci a questo” diceva nel 2012 a La Repubblica XL e lo ha sempre dimostrato: si muoveva nel panorama musicale come qualcuno che non aveva nulla da perdere. “La vita non finisce / È come il sogno / La nascita è come il risveglio / Finché non saremo liberi / Torneremo ancora” cantava nel suo ultimo singolo dal titolo emblematico “Torneremo ancora”.

Una rinascita che ha anche i tratti della filosofia classica, dall’aristotelico abbraccio esistenzialista di “Come un cammello in una grondaia” fino allo spiritualismo senechiano di “Tutto L’Universo Obbedisce All’Amore”, cantato in coppia con la Cantantessa Carmen Consoli, una delle numerose figlie artistiche generate dal lirismo battiatesco. “Bisogna muoversi / Come ospiti pieni di premure / Con delicata attenzione / Per non disturbare / Ed è in certi sguardi che / Si vede l’infinito“. Versi scritti insieme al filosofo e amico Manlio Sgalambro che racchiudono l’esistenzialismo, come appendice poetica al pensiero di Seneca che vedeva nel corpo una casa che ospita l’anima. Questa ha una sua vita, una sua essenza che tende all’infinito. E gli occhi – si suol dire – dell’anima sono specchio. Non cedeva ai “brutti scherzi che gioca la materia” (intervista di Battiato a La Repubblica XL, 2012), per questo andare oltre le apparenze, oltre ciò che è terreno non era solo coerenza di pensiero, ma un atto di estrema affermazione individuale, di vittoria sulla caducità della vita. “Non posso affermare di non temere la morte, ma sto lavorando per essere degno di un passaggio di un essere umano da una dimensione all’altra. Ce la sto mettendo tutta”, avrebbe dichiarato nell”intervista a La Repubblica XL. Forse in questo risiede la chiave del suo successo, che è stato prima di tutto personale e poi commerciale.

Vivere non è così difficile potendo poi rinascere/ Cambierei molte cose un po’ di leggerezza e stupidità“: ne “L’animale”, Battiato ci insegna a vivere con la leggerezza di cui parla Calvino nelle “Lezioni Americane”, planando senza superficialità sulle cose dall’alto come un uccello – suo modello di perfezione – e cambiando le prospettive al mondo. La vita è vista come transitoria: essa oscilla come un pendolo tra due punti fermi, nascita e morte. A rendere bene il concetto è un’affermazione presa in prestito da Sgalambro: “Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è sogno, interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia“. E la morte stessa è poi motivo di rinascita, in un pensiero eracliteo e mediorientale di reincarnazione e di accostamento degli opposti fino all’incontro in un punto comune che è la vita stessa: “trovare l’alba dentro l’imbrunire” è difficile, ma non così impossibile.
 Altro simbolo di mescolanza di elementi differenti è l’amata Sicilia, un’isola aperta sui tre versanti, dove i quattro elementi si ritrovano a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro: un microcosmo figlio della contaminazione di diverse culture. Battiato ne è l’erede moderno, attaccato alle sue radici di cui si fa promotore nonché mente libera e aperta verso il nuovo, sperimentatore senza paura anche nel suo modo di fare musica: con un piede nel passato e l’altro proiettato verso il futuro, “senza spazio e senza tempo“. Un eclettismo cosmopolita che si porterà dietro e che verrà arricchito nella sua lunga permanenza a Milano.

Grazie alla ricerca di eternità espressa con forme avanguardistiche, Battiato è riuscito a farsi amare dal giovane al meno giovane, dal proletario e dal padrone, dai discotecari, dai rockettari e dagli intellettuali. Tutto questo ponendo le domande nel giusto modo. E a Vincenzo Mollica che gli chiedeva “cosa vorresti rimanesse di te dopo la tua morte“, Battiato rispose: “Un suono. Vorrei rimanesse un suono“.

In punta di piedi o attraverso gesti eclatanti, questi tre artisti si ritrovano faccia a faccia con l’ultraterreno in solitudine: seppur lontani dai riflettori, la notizia della loro dipartita ha avuto una risonanza incommensurabile. Esistenze più o meno lunghe ma intense, mosse dalla curiosità di andare “oltre”, facendo dono in eterno del loro lascito a chi sarà di passaggio su questa terra.

Una corda intrecciata“, “l’alba dentro al tramonto“. “Where will it end? / Where will it end?

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