Abbiamo parlato con il frontman dei Boundaries, Matt McDougal, del nuovo album “Death Is Little More“, in uscita il 29 marzo per 3DOT Recordings. Ma anche di malattia mentale, di Dante e di vita in tour, in attesa di vederli dal vivo il 6 aprile al Legend Club di Milano, in apertura agli Spite.

Ciao Matt! Prima di tutto, grazie per aver dedicato del tempo a questa intervista con noi e benvenuto su SpazioRock! Tra poco uscirà il vostro nuovo album “Death Is Little More”. Come ti senti a riguardo?

Grazie mille per avermi invitato! Sono molto entusiasta per l’uscita del disco. È il mio preferito che abbiamo fatto finora, sia per quanto riguarda la scrittura delle canzoni che per il sound in generale. Posso anche dire con certezza che ascolterete la mia migliore performance vocale: ne sono super soddisfatto, aver dedicato molte più ore alla registrazione ha dato i suoi frutti! E visto l’impegno che ci abbiamo messo, spero davvero che i nostri fan apprezzeranno “Death Is Little More” quanto lo apprezzo io. È un album che rappresenta il mio modo di superare molte insicurezze. Ho dato il massimo per suonare al meglio, per creare canzoni che fossero il più pesanti, belle e melodiche possibile. Ho affrontato questo progetto come se fosse l’ultimo album che avrei mai realizzato.

Rispetto a “Burying Brightness”, ho subito notato un suono più pesante in tutte le tracce. Come avete dato vita a questo nuovo mood?

Abbiamo iniziato a scrivere questo disco con l’idea di voler creare l’album più pesante che abbiamo mai fatto. Era una sorta di sfida che ci eravamo posti, per vedere se riuscivamo a bilanciare le esigenze di un sound potente senza perdere quei tocchi unici che crediamo ci caratterizzino. Avremmo potuto facilmente produrre 10 tracce piene di riff classici e breakdown e dire “ehi, abbiamo scritto un nuovo disco!”, ma non volevamo cadere in quel cliché. Volevamo un album potente dei Boundaries, non semplicemente un album potente qualsiasi. Per noi è sempre stato e rimane importante mantenere la nostra identità in ogni disco, senza mai ripeterci.

Il vostro nuovo album di intitola “Death Is But Little More,” una citazione di Dante Alighieri (Inferno, Canto I). Come siete venuti a conoscenza di questa citazione e cosa vi ha colpiti a tal punto da ispirare un intero album?

Dopo “Burying Brightness” mi sono sentito emotivamente provato. Avevo messo su carta dozzine di canzoni che raccontavano i momenti più intensi e dolorosi della mia vita, e questo stava iniziando a pesare. Temevo che, se avessi continuato a creare arte solo attraverso la condivisione di queste esperienze molto personali, avrei dovuto continuare a farlo in tutti i futuri album. La musica, il mio modo di esprimere e condividere me stesso, si sarebbe trasformata in qualcosa di diverso. Avrebbe significato scrivere nuove canzoni solamente quando non stavo bene, e non volevo arrivare a quel punto. Mentre cercavo ispirazione per il nuovo album, ho letto l’Inferno di Dante, uno dei tanti libri che ho divorato. Consumavo qualsiasi tipo di media alla ricerca di un nuovo punto di partenza per l’album. Guardavo qualsiasi film, qualsiasi serie TV, leggevo qualsiasi libro. La frase “la morte è poco più di questo” mi ha colpito molto durante tutto il processo. L’idea della vita come una montagna in continua crescita di compiti e stress risuonava con il mio stato d’animo mentre cercavo la giusta ispirazione. Una volta trovato il collegamento, tutto il resto è stato quasi automatico, come se ogni elemento della scrittura di un disco fosse il pezzo di un puzzle.

Come avete incorporato i temi di Dante relativi alla pressione esistenziale e al confine sfumato tra vita e morte nella musica e nei testi dell’album? Ci sono temi o messaggi che sperate gli ascoltatori ricaveranno dall’album?

L’Inferno di Dante è chiaramente un libro molto religioso, una storia sull’uomo che si allontana dal sentiero che Dio ha tracciato per lui. Detto questo, chi lo ascolterà probabilmente non troverà molto di tutto questo nell’album, perché non sono una persona religiosa e non mi interessa fare musica religiosa. Quando utilizzo termini come Dio o Paradiso (o qualsiasi altra classica parola biblica) nelle mie canzoni, è sempre a scopo metaforico. Questo album riguarda principalmente l’intersezione tra la sconfitta e la motivazione, del prendere le cose che ci portano giù e, invece di rimanere bloccati lì, utilizzare la rabbia, la vendetta, ecc., come carburante per continuare e sopravvivere. In questo album, l’individuo è il vero eroe. La lotta è la spinta, il dolore è il carburante, e tutto il resto è il percorso da percorrere.

Finora, avete rilasciato alcuni singoli in vista del lancio dell’album. Ad esempio, “A Pale Light Lingers” vede la partecipazione di Lochie Keogh degli Alpha Wolf. Come è iniziata questa collaborazione e qual è il vostro rapporto con questa band?

Non avevamo un vero e proprio rapporto con gli Alpha Wolf prima della collaborazione. Il nome di Lochie è semplicemente uno dei vari che ho lanciato in studio come idea, dato che sapevamo che la band era fan della nostra musica. Mi è sembrata una cosa naturale da proporre e da trasformare in realtà! Gli abbiamo fatto ascoltare la canzone mentre erano in tour con Motionless In White, se ricordo bene, e ci ha risposto quasi subito dicendo che adorava la canzone e che era entusiasta di partecipare. È stata un’esperienza fantastica sotto tutti i punti di vista, e siamo davvero felici del risultato.

Oltre a collaborare con altre band, ho letto che per scrivere questo album, avete deciso di trascorrere sei settimane in studio (Graphic Nature Audio) con Randy Leboeuf, discutendo le canzoni e lavorando su di esse tutti insieme. Cosa pensi che questo approccio abbia portato al suono dell’album? Siete soddisfatti dei risultati?

Sono un grande fan di questo approccio “tutto o niente” alla scrittura. Il rifugiarsi per sei settimane (per chi non lo sapesse, Graphic Nature è praticamente una capanna nel bel mezzo del bosco) è il modo perfetto per evitare distrazioni e rimanere in un flusso creativo costante. Creare un album con altre 5 persone può essere complicato, se tutti iniziassimo ad andare e venire per stare dietro ad altri impegni, potrebbero sorgere conflitti. Per esempio, qualcuno potrebbe stare via per una giornata intera, tornare la sera e scoprire che nel frattempo una parte di una canzone è cambiata, e non essere soddisfatto nel lavoro svolto. Per me, è essenziale essere lì tutto il tempo e immergersi completamente nella scrittura e nella composizione per un paio di settimane. Sono felicissimo del risultato: un album come “Death Is Little More” che, secondo me, è il meglio che potesse essere. Tutte le canzoni sono venute fuori al meglio.

Sono molto curiosa di sapere tutto su come è nato “Death Is Little More”, quindi ecco un’altra domanda sul processo compositivo. Qual è stata la sfida più grande che avete affrontato scrivendo questo album, se ce n’è stata una?

Per me, il più grande ostacolo è stato essere liricamente autenticamente ed espressivo, senza compromettere la mia tranquillità. Ero sicuro di non voler scrivere un altro “Burying Brightness”, e onestamente non credo ci sarei riuscito, anche se l’avessi voluto. Quell’album parla moltissimo della scomparsa di una persona cara nella mia vita, a causa di alcolismo e dipendenza, e di eventi che si sono protratti per decenni. Avevo voglia di cambiare, non volevo più essere un osservatore passivo che descriveva gli eventi della vita. Aspiravo a creare un album in cui l’ascoltatore potesse sentirsi il protagonista della propria esistenza e sentirsi compreso.

Immergendoci più a fondo nella tracklist, quali brani sono i più significativi per te personalmente?

Le tracce 2, 10 e 12 sono quelle che mi toccano di più personalmente. “Darkness Shared” parla del mio viaggio più intenso nel concetto di cui ho parlato prima. Mi sento come se fossi diventato meno un individuo e più un insieme di traumi che devono essere condivisi con gli altri, che lo voglia o no.

“Blame’s Burden” parla della mia fantasia più ricorrente, quella di poter cancellare la mia vita dalla storia degli altri. La voglia di non esistere più, scomparire ma in un modo che non faccia soffrire chi mi ama. Non è tanto il desiderio di sparire, quanto quello di volere il meglio per le persone che mi circondano… e mi capita di pensare che starebbero meglio senza di me.

“Inhale The Grief” parla del confronto con il nostro passato. È stata dura per me riflettere sul mio passato e accettare tutti quegli anni che mi sembrava di aver perso a causa della mia malattia mentale. Ma ora, dopo qualche anno di terapia e di un regolare regime di farmaci, ho una prospettiva molto più luminosa e positiva davanti a me. Spesso penso che se non fossi stato così spaventato all’idea di chiedere aiuto, avrei potuto arrivare dove sono ora molto prima. Avrei potuto risparmiare a me stesso, ma soprattutto a tutte le persone che mi stanno vicino, l’onere di essere nella mia vita nei momenti più difficili del mio percorso. Ma ora, voglio far capire che bisogna imparare ad accettarsi e andare avanti.

In aprile, inizierete il tuo tour europeo, che sarà seguito immediatamente da un tour negli Stati Uniti. Vi esibirete a Milano il 16 aprile, aprendo per gli Spite. Siete emozionati?

Non vedo l’ora di tornare in Europa e, in particolare, di dare il via a quel tour. Siamo molto legati a tutte le band che parteciperanno, e ci aspettiamo che ogni show sarà carichissimo.

A proposito di live: secondo te, qual è la cosa più importante per suonare un live perfetto?

Le due cose più importanti per uno show dal vivo, secondo me, sono: suonare le canzoni in modo perfetto, come sono state registrate, e creare un legame con il pubblico. La prima potrebbe sembrare un po’ strana, ma con tutta sincerità posso dire che alcune delle vostre band preferite registrano pezzi in studio che non riescono a suonare dal vivo. Penso sia una delle delusioni più grandi per chi partecipa a un concerto, rendersi conto che le cose dal vivo sono diverse… non lo trovo giusto nei confronti dei fan. Questa cosa si lega a quello che intendo per connessione. Per me, è fondamentale superare le aspettative del pubblico. Quando ti esibisci, dai sempre il massimo. Spingi il tuo corpo al limite per creare qualcosa di speciale per tutti presenti. Se lo meritano, sei su quel palco grazie a loro.

Continuando a parlare di tour, vorrei concludere questa intervista con una domanda che non è legata alla musica. Quali sono le cose che ti piace fare di più quando sei in tour?

Io e la mia dolce metà siamo vegani e amanti del caffè, quindi ci piace tantissimo visitare nuovi posti e girare in lungo e in largo alla ricerca di caffetterie o panifici con dolci che possiamo gustare. Lei è la nostra fotografa e merch girl, quindi passiamo un sacco di tempo on the road insieme e ci godiamo ogni istante. Non sappiamo mai se avremo la possibilità di visitare lo stesso posto due volte, quindi per me è fondamentale vivere ogni momento al massimo quando ci siamo.

Grazie per il tuo tempo, ci vediamo presto a Milano!

Grazie per la chiacchierata, a presto! <3

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