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Ars oratoria e aerobica spinta. Potremmo sintetizzare in tali due elementi l’attesissimo riapprodo sul suolo italico degli Yard Act, ma cadremmo stupidamente nel riduttivo, poiché il sudore (nostro) e le corde vocali stremate di James Smith si sono attorcigliati in uno scambio osmotico di pensieri e paure, di ironia e insoddisfazione, di gioco e fottuta realtà. Il tutto nella meravigliosa Bologna, in una metà di aprile che pare il principo di luglio, all’interno del vermiglio rettangolo di un Locomotiv Club sold out da un mese.

Ma prima di addentrarci nel sornione racconto del main act, Murkage Dave porta sul palco una cassetta, la ficca in uno stereo vintage – la sua “band” di supporto, così li presenta – e inizia a rappare sulla base: venature R&B, sospiri soul e l’imprinting della black music che avvolgono l’ugola del songwriter di Leytonstone, trapezista tra i generi e poeta della quotidianità, intento a portare in giro per il globo un messaggio ben chiaro: “Don’t move to London, it’s a trap.

Apertura insolita, ma non totalmente fuori fuoco, d’altronde i quattro di Leeds hanno fatto della fusione di suoni – e della conseguente contaminazione – la loro giostra preferita, un ibrido schizzato tra quei cavallini che roteano docilmente ed il più adrenalinico tra gli ottovolanti.

Esatto, un fervido carrozzone: l’immagine di quello che gli Yard Act traslano sullo stage una volta palesatisi davanti a noi. Semplice concerto? Ma che. È più la rappresentazione veritiera di parole in subbuglio, di pensieri vorticosi che smembrano le sinapsi di un giovane di oggi, fotografate e messe in sequenza da una scaletta che, nonostante attinga da soli due album (più un EP), fa colare sul parterre un senso di completezza, di lucida follia, di preziosa, stronzissima, verità.

Sono il sogno e l’utopia di una fama che c’è, ma che non si “tocca”, quelli che gli inglesi ci spiattellano davanti per il Dream Job Tour, celebrazione dell’ottimo “Where’s My Utopia?”, uscito il 1 marzo e già spuntato tra i best albums di questo primo quarto di 2024.

Gran parte della setlist dedicata, giustamente, all’ultimogenito ed è, da subito, una festa di divagazioni sonore e nervose danze sul patinato cadavere del successo: le evoluzioni orchestrali e art-rock di “An Illusion”, il brio pop della frizzantina “We Make Hits”, l’insidiosa serpentina, tirata su da Ryan Needham e Sam Shipstone, di “Down By The Stream”, locus amoenus per lo sprechgesang di un James Smith mattatore totale della serata.

Pare quasi abbindolarci come un ipnotista con qualche rotella fuori posto, con quei discorsi a metà tra ubriachi sproloqui da pub e limpidi affreschi verbali di vita vissuta. Salta quando il funk di “Dream Job” e l’80s sound di “When The Laughter Stops” ancheggiano davanti a noi, corre quando il calendario segna il “Payday”, sbrana il microfono in “Dead Horse” e nella fiammeggiante “Witness (Can I Get A?)”, coadiuvato dalle backing vocals – e dagli stralunati balletti – di Lauren Fitzpatrick e di Daisy Smith.

Non mancano, quindi, i pezzi tratti da “The Overload”, fari puntati soprattutto sulla title track stessa, fortissima live. Ma non manca nemmeno il dovuto tributo all’EP di debutto, con lo schiaffone groove di una “Dark Days” pescata da un fan tramite una speciale ruota della fortuna improvvisata sul palco – Riccardo, se stai leggendo, hai le mani d’oro e ti voglio bene.

yard act 2

Encore lasciato alla splendida “100% Endurance” e ad una “The Trench Coat Museum” che pare caricarsi, come un generatore di energia, di elettricità acuta e mutevole distorsione, un rumoroso crescendo acciuffato da James Smith per urlare al mondo il rigetto della guerra ed il supporto incondizionato verso il popolo ucraino e quello palestinese.

Insomma, le testimonianze derivanti dal ToDays e dall’Ypsigrock di un paio di anni fa erano decisamente fedeli: di certo il Locomotiv Club non poteva radunare la stessa capienza dei festival succitati, ma di certo poteva coccolare la potenza espressiva di una delle migliori realtà del rock alternativo odierno.

Gli Yard Act hanno colonizzato Bologna e i nostri cuori con la ricetta più semplice ed efficace del mondo: parlare (tanto), suonare (bene), muoversi (troppo). E noi, stupidi amatori, ci siamo infatuati.

Setlist

An Illusion
Dead Horse
When The Laughter Stops
Grifter’s Grief
Pour Another
Fizzy Fish
We Make Hits
Dark Days
Witness (Can I Get A?)
Down By The Stream
Dream Job
Payday
The Overload
A Vineyard For The North

Encore
100% Endurance
The Trench Coat Museum

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