Angra
Aurora Consurgens

2006, SPV
Power Metal

Recensione di Gaetano Loffredo - Pubblicata in data: 31/03/09

Nessuna parata di stelle per il nuovo disco dei brasiliani Angra. Dopo il successo ottenuto con Temple of Shadows, grazie anche agli importanti e innumerevoli ospiti che vi partecipano, la storica formazione capitanata dalla coppia di asce Kiko Loureiro e Rafael Bittencourt  ritorna sugli scaffali con l’innovativo Aurora Consurgens, lavoro realizzato per scuotere l’ambiente del power metal che da troppi anni ormai, si crogiola sui capolavori del passato.


Avrebbero potuto consegnarci un Temple of Shadows 2 con la consapevolezza di chi sa di tirare un calcio di rigore a porta sguarnita ma la banda paulista, ancora una volta, ha deciso di mettersi in discussione con qualcosa di nemmeno lontanamente accostabile ad Angels Cry e Holy Land e aggressivo quel tanto che basta per rimembrare l’enigmatico Fireworks.
Il dischetto, a onor del vero, spiazza nei primi ascolti presentandosi come un tributo alle peculiarità balistiche che da sempre imputiamo al guitar hero Loureiro ma le difficoltà recettive incontrate nei suoi cinquanta minuti svaniscono col passare del tempo, quando a poco a poco si dissolve l’aurea protettiva rivelandoci un disco dai contorni Angra al cento per cento. Non è facile trovare melodia sconfinando spesso e volentieri nei virtuosismi, non credete?


Impossibile, quindi, non innamorarsi dei brani spigliati e sofisticati (Ego Painted Grey), delle cavalcate scorrevoli e melodiche (The Voice Commanding You, Window To Nowhere) o delle ballate acustiche e sdolcinate (Breaking Ties e Abandoned Fate) , il tutto contrapposto alle liriche deprimenti ispirate da un Tommaso D’Aquino mai tanto attuali, meritevoli e, se mi consentite, scomode. Consultate l’intervista di Edu Falaschi per saperne di più.

Aurora Consurgens, al di là della sacralità e del fanatismo incondizionato dei fedelissimi, è un album nel suo complesso gradevole e consistente, energico e moderno, ricco di spunti innovativi e non per questo deprecabili o mal riusciti.
Ho apprezzato la disinvoltura e la classe con le quali i nostri si sono districati nel labirinto dei suoi spartiti senza scadere nei banali citazionismi che, purtroppo, Rebirth e Temple of Shadows hanno, in qualche sparuto momento, registrato.

Ben venga la svolta aggressiva e semi-progressiva tenendo conto dell’esistenza di falle (non tecniche, compositive) ma anche di ampi margini di miglioramento.

In fondo, ragazzi, non è ciò che lo stesso Tommaso D’Aquino vi ha suggerito?





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