Angra
Holy Land

1996, Lucifer Records
Power Metal

Nasce all'insegna della contaminazione uno dei dischi metal più importanti degli anni Novanta. Un must.
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 17/04/17

Il contesto lo conosciamo: anni '90, anni di grandi cambiamenti, eccetera, eccetera. Nuovi soggetti si affacciano al mondo in campo musicale. La parola d'ordine diventa contaminazione, Scandinavia e paesi latini intercettano per primi la voglia di cambiamento e iniziano lentamente a erodere l'egemonia metal anglo/americana/tedesca. L'onda lunga arriva sino al Nuovo Mondo, sulle coste del Brasile, paese sconfinato, ricco di ancestrali tradizioni e contemporanee contraddizioni. Tocca a una talentuosa band di San Paolo tentare l'inconciliabile: combinare  da una parte il metal classico nella sua accezione power, di stampo tipicamente centroeuropeo, con la sua ortodossia e i suoi rigidi schemi compositivi, con i colori, la carica e l'imprevedibilità della musica sudamericana. Quello che sembrava fantascienza, e per qualcuno un'eresia, diventerà invece uno dei capitoli musicali più felici di quel periodo.
 

"Holy Land" resta, a oltre vent'anni dall'uscita, un disco difficile da catalogare, per i tanti elementi che lo caratterizzano. Guai cosinderare gli Angra dei rottamatori ante litteram: sulla caravella verdeoro furono imbarcati come addetti alla produzione e al mixaggio due signori tedeschi all'epoca ancora poco noti di nome Sascha Paeth e Charlie Bauerfeind. Non passerà molto tempo prima che i due raggiungano lo status di autentiche istituzioni nel campo delle produzioni metal, ma questa è un'altra storia, peraltro nota a tutti, utile comunque a comprendere lo spirito della band. La storia degli Angra racconta di cinque ragazzi poco più che ventenni che, dopo il dirompente "Angels Cry", esordio saldamente ancorato alla tradizione ma che lasciava intuire la strada che la band avrebbe intrapreso, si lanciano a tutta velocità spingendo sul pedale della contaminazione. Il curriculum dei cinque musicisti carioca è atipico ma di tutto rispetto, al punto che il vocalist Andre Matos può persino vantare numerosi diplomi di conservatorio. Gli Angra sono musicisti fuori dal comune, abili a colorare la propria musica in modo fantasioso, ecco il tratto distintivo del combo brasiliano. Fortissima, e mai troppo dichiarata, l'influenza dei Queen, sia negli inserti per sola voce e piano, sia nelle parti sinfoniche, mai sopra le righe e perfettamente funzionali ai pezzi, persino in quelli di derivazione speed/power. Altrettanto caratterizzante è il tocco tribale che pervade il disco di quella tipica latinità che lo rende ancora oggi variopinto e unico nel suo genere. "Holy Land" non è una pennellata di strumenti etnici messa lì a caso per darsi un tono: "Holy Land" ha il dono irrazionale di trascinare l'ascoltare sulle vivaci onde di maestrale, come di farlo camminare su una spiaggia dorata battuta dal sole. Le percussioni ossessive delle culture tribali e il concept di stampo storico fanno da corollario, rendendo l'ascolto del disco una sorta di esperienza "geografica". Tracce come la title track sono l'esempio concreto di miscela stilistica fra due mondi così distanti. Un disco che si piazza a livelli di eccellenza assoluta, con una band in stato di grazia anche da un punto di vista compositivo, capace di bilanciare pezzi di derivazione helloweeniana come l'opener "Nothing To Say" e "Z.I.T.O." (che sta per "Zur Incognita Terra Oceanus", o se preferite "terra sconosciuta al di là dell'Oceano"), le power ballad "Deep Blue" e "Make Believe", e tracce più sperimentali come "Carolina IV", "The Shaman" e la title track. Anche per i testi, gli Angra decidono di dare un tocco del tutto personale: "Holy Land" è una sorta di concept album sulla scoperta del nuovo mondo ma, più che un excursus storico, è una metafora delle distorsioni contemporanee fra guerre di conquista e riflessioni di carattere universale.
 
 
"Holy Land" non è tanto uno schiaffo alla tradizione, quanto uno spostare un po' più in là l'asticella dei confini di un genere storicamente poco propenso alle innovazioni. Un disco che ancora oggi è l'esempio perfetto di power metal contaminato. Un must.




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