Una rivoluzione stilistica, da parte degli Amorphis, non era in fondo ciò che ci saremmo aspettati, e in fondo nemmeno ciò che avremmo desiderato: troppo particolare e variegata la formula proposta dal combo finlandese, per pensare di poterne alterare le strutture senza minarne i fragili e fondamentali equilibri. Così, giunta al dodicesimo album, la band continua a far leva sui suoi ormai acclarati punti di forza: la versatilità e la tecnica del vocalist Tomi Juotsen, la piacevole alternanza tra smisurata violenza e aperture melodiche, l'indiscussa epicità che le chitarre di Esa Holopainen Tomi Koivusaari.
"Under The Red Cloud", in realtà, si distacca leggermente dalla strada cattivissima intrapresa in "Circle": non tragga in inganno il pesante (e nemmeno tanto riuscito, tra flauti non ineccepibili e vocalità un po' sbilenche) singolo "Death Of A King", perché i rallentamenti e gli istanti atmosferici, in quest'album, sono in netta maggioranza rispetto ai blast-beat e alle esplosioni metalliche. Non è un caso infatti che l'opener e title-track torni a introdurre l'album per mezzo di raffinate note al piano, per trovare il compimento del suo climax in un elegante abbraccio tra chitarra solista e tastiere; o che il disco veda i suoi momenti migliori sul dittico "Dark Path"-"Enemy At The Gates", la prima contraddistinta da un sepolcrale momento di rottura acustico, la seconda lentissima nel suo drammatico incedere. Strano invece l'impatto della conclusiva "White Night", che vede il battagliero growl di Joutsen scontrarsi, sulle crepuscolari strofe, con una delicata, sussurrata voce femminile (di Aleah Stanbridge dei Trees Of Eternity), per poi sciogliersi nel canto clean in una maggiormente ottimistica chiusura di brano (e di disco).
È un album che testimonia per l'ennesima volta (se ce ne fosse ancora bisogno) come gli Amorphis siano dei maestri del folk-death, e che mette in mostra come la band si trovi a suo perfetto agio nel modellare mitologia (riprendono vita le arcane forze naturali dei paesaggi finlandesi, le stagioni e le loro personificazioni, le inossidabili virtù della fratellanza e del sacrificio) e metal moderno, dolcezza e guerresca brutalità. Peccato che talvolta -e forse è inevitabile, quando il numero di brani in carriera raggiunge le tre cifre- s'avverta un evidente riciclo d'idee, si noti l'emergere di un impeccabile ma freddo manierismo compositivo, l'adesione a una formula incapace di sorprendere. Ma val sempre la pena di gustarsi piccole variazioni sul tema del già sentito, se suona ancora così bene.