L’altra sera ero a casa di Jimi Hendrix, e senza aver usato la cabina del telefono del Doctor Who. Ho preso la metropolitana, sono sbucato dal sottosuolo a Bond Street Station, e ho camminato dieci minuti a piedi, forse meno. Londra nel 2024 rimane affascinante e invitante, di venerdì sera, con la sensazione sia arrivato il momento di entrare in un pub e non uscirci più per le prossime due ore, anche a gennaio, il mese più triste dell’anno. Io invece mi reco al numero 23 di Brook Street, alla casa museo di Handel e Hendrix. Il primo, George Frideric Handel, compositore barocco del diciottesimo secolo, e il secondo, Jimi Hendrix, chitarrista e icona del rock, icona nel vero senso della parola, tra le dieci facce più celebri della storia della musica degli ultimi cento anni. Avevano vissuto nella stessa casa, in epoche diverse, e a piani diversi, con Hendrix all’ultimo piano, forse per stare più vicino alle stelle. Ci vado quello specifico venerdì sera per assistere a un mini concerto di Ese Okorodudu con una versione ridotta della sua Vooduu People, e in stile cameretta.

La cameretta in questione è la camera da letto di Jimi Hendrix, mantenuta e ricreata proprio come quando Jimi ci alloggiò a cavallo tra il 1968 e il 1969. Il chitarrista di Seattle in quegli anni sicuramente non avrà avuto, nella più rosea delle accezioni, una fissa dimora tranne che questa qui a Londra, a due passi da Soho, difatti riconosciuta come unica residenza ufficiale del chitarrista, letteralmente in tutto il pianeta. A volte, non saprei dire quanto spesso, se settimanalmente o ogni giorno, penso a cosa è stata Londra per l’umanità, quantomeno per quella occidentale, e sicuramente lo è ancora. Hendrix non avrebbe avuto quel terreno fertile in cui anche lui sbocciare insieme a tanti altri, e ora non ci sarebbe questo numero civico tutto speciale, così ben curato. Ese non sarebbe stata un astro nascente e io banalmente non avrei avuto la possibilità di parlarvene. Non so cosa sia, la storia di un luogo richiede spiegazioni che includono probabilmente la geografia antropica, le dominazioni, la distribuzione di mari e monti, forse pure l’orografia. Londra, come risultato, non credo abbia eguali nell’immaginario collettivo.

EseHendrixHouse

Nel frattempo sono arrivato al museo, la calorosa accoglienza dello staff è pari a quell’ambiente. La zona di Hendrix è all’ultimo piano, e i primi due invece sono dedicati a Handel e a buon diritto, verrebbe da dire. Luci soffuse, arredamento dell’epoca, con tanto di lettone a baldacchino. Tutto così ben tenuto, spazioso nonostante gli ambienti non giganteschi. È innegabile per me non avvertire la sensazione di essere effettivamente in una casa di un privato cittadino, e non in un museo. Mentre salgo gli scalini che mi portano ai piani superiori penso a quando Hendrix pare impazzì di curiosità nel sapere che in quelle stanze ci aveva vissuto un famoso compositore barocco. Ancora, la scelta delle luci mi affascina. Calde, sincere, toni arancioni. Ecco alle mie spalle che echeggiano alcune note di violoncello (lo strumento è in realtà una viola da gamba) del concerto precedente che aveva appena avuto luogo nella sala da pranzo di Handel, al primo piano. La musicista stava spiegando lo strumento a qualche curioso e quelle note così squisite riempiono le pareti che sembra la casa stessa sia una cassa di risonanza. Vengo accompagnato all’ultimo piano, dove tre stanze presentano chiaramente il bel salto negli Anni Sessanta.

Filmati d’epoca, la Jimi Hendrix Experience che spunta in ogni angolo. Una seconda stanza espone la collezione di dischi di Jimi, quelli che probabilmente aveva comprato in qualche negozio di Berwick Street, e poi si entra nel nocciolo della questione, la stanza da letto del Wild Man of Borneo. Piena di dettagli, il cappello nero poggiato su un mobiletto, la coperta rosso fuoco, toni di porpora un po’ ovunque. La trovo adorabile, profuma visivamente di psichedelia, di musica, di creatività ma tutto con gentilezza, senza eccessi. Mi viene in mente “Burning of the midnight lamp” e qualche passaggio dei suoi alla chitarra, di quelli più fluidi e ispirati, come qualche momento in “Third stone from the Sun”. La stanza inizia a riempirsi, facce rilassate, gente di tutte le età: fuori Londra inizia a scatenarsi per il weekend, ma lì dentro delle semplici finestre tengono lontano ogni rumore. Ci si stringe, ci si siede per terra su cuscini colorati, alla fine credo che saremo non più di una quarantina, visto che comunque si tratta di una stanza da letto, anche se spaziosa.

Arriva Ese, bellissima in abbigliamento completamente nero e pantaloni di velluto e, nonostante sia minuta, quasi neanche lei trova spazio. Decide di suonare seduta sul letto di Jimi, piccolo amplificatore e Fender nera, microfono che condivide con la sua corista Sheena Ross. Seduto per terra il talentuoso percussionista Kissangwa Mbouta aggiunge un po’ di sale e pepe, quanto basta. S’improvvisa la distribuzione dei cavi tra la gente, sembra davvero di essere a una festa privata e lo dico con tono positivo, non mi sorprenderebbe se ora arrivassero panini per tutti o qualcuno proponesse una spaghettata per ingannare l’attesa. Prendo qualche appunto e conosco Kevin, il manager di Ese, seduto per puro caso al mio fianco. Ese inizia, quasi timida come al solito quando si tratta di non suonare, ma mai comunque a disagio. Non ci mette molto, forse il tempo di una canzone, a trasformare l’aria nella stanza prendendone completamente la scena.

EseVooduu

Magnetica più del solito, canta e suona un breve set di una decina di sue canzoni, e lo fa con tale naturalezza che in un attimo ci si dimentica di essere “a casa di Hendrix”, ma si potrebbe essere tutti a casa di Ese a Londra Est. Le mani ballano sicure sulla Stratocaster, la voce esce sincera ed efficace. Mentre la ascolto immagino che se in quel momento entrasse qualcuno non al corrente dello show, molto probabilmente potrebbe pensare che quella donna, lì seduta ai piedi del letto, si tratti della nipote dell’idolo di Seattle e tale deduzione non farebbe alcuna piega. Posso immaginare io stesso in quel momento Jimi che strimpella una canzone nuova, che la spiega a Noel Redding, e insieme ne analizzano un po’ meglio la struttura blues di qualche fraseggio, o del riff principale. Siamo nel 1968 ora, Ese è la trasmissione, Jimi il messaggio. Anche la stanza risuona così bene, forse siamo tutti noi presenti che palpitiamo delicatamente di buone vibrazioni, perché credo si tratti proprio di quello, né più né meno.

Il mini concerto finisce, chi saluta Ese, chi scatta fotografie qua e là, chi va a perlustrare il resto del museo, che in quel momento si era fondamentalmente fermato per poco più di mezz’ora, raccolto come un’ostrica attorno alla perla. Faccio le ripide scale della casa per l’ultima volta, almeno per quella sera, sbircio un altro paio di volte nelle stanze di Handel e in un attimo sono fuori, a due passi da Oxford Street: sono le venti e devo trovare un modo per arrivare in un batter d’occhio ad Hackney, per un altro concerto. Ma non mi prende una reale fretta, quelle ultime due ore passate in quelle stanze, accompagnato dallo staff del museo, da quelle luci, con il tempo adornato da esempi di musica divenuti immortali, mi hanno lasciato dentro un intenso mix di benessere, euforia e letizia – proprio come il tema principale di “Third stone from the Sun” di Jimi.

Setlist

Sweet Jean (A Capella)
Silver Spoon
I Don’t Mind
Home Is Where The Hatred Is
Sweet Jean
Fairytale
Pain Fades
Dynamite
Making An Offering

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