Sono un sollevatore di ipotesi (Davide Cicalese)

È una serata romana dalla temperatura particolarmente mite, premonitrice neanche troppo nascosta del caldo estivo che incombe ormai alle porte, a incorniciare il ritorno in loco dei Furor Gallico, un habitué del Traffic Live Club a differenza dei compagni di viaggio Kanseil, al battesimo sull’assito della caverna capitolina. Due entità legate da una duratura amicizia e che rappresentano, a oggi, probabilmente le migliori espressioni del folk metal tricolore, benché la declinazione del genere tanto da parte dei brianzoli quanto nei veneti non segua delle direttrici così uniformi come qualcuno, a torto, potrebbe pensare. Si tratta, tuttavia, di stereotipi capaci di mettere radici esclusivamente nella mente di rari e ignari individui, un’osservazione testimoniata dal gran numero di spettatori che invade sin da subito le aree esterne e interne del locale, ansiosi di ascoltare le storie e le leggende esposte a suon di musica da entrambi gli ensemble e acquistarne i cimeli carpendoli dal cospicuo banco del merchandising. L’ambiente e il clima giusti per un concerto di abbondanti centoventi minuti e dall’affluenza trans-generazionale, che si rivelerà pari, se non addirittura superiore, alle attese della vigilia.

Kanseil

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Aprono le danze, verso le 21.10, i Kanseil, formazione originaria del trevigiano formatasi nel 2010 e autrice di tre full-length, “Doin Earde” (2015), “Fulìsche”(2018) e “Vaia”, quest’ultimo rilasciato appena lo scorso gennaio, che hanno visto il gruppo ampliare e approfondire la genetica del proprio stile, conferendo un taglio introspettivo e malinconico a una proposta e a una poetica che, pur intrise di una potenza sonora travolgente, offrono poco o nulla di davvero festaiolo. Il folk metal dalle incisive intarsiature pagan e death dei sei di Fregone, con testi rigorosamente in italiano e dialetto, coinvolge, on stage, per epicità, tiro e dinamismo, un connubio di forze micidiali dove spiccano soprattutto l’eclettica prestazione del carismatico frontman Andrea Facchin, splendido esegeta di linee vocali in clean e non solo, e le suggestive melodie della cornamusa di Luca Zanchettin, l’unico strumento tradizionale a disposizione del gruppo durante lo show, considerata l’assenza di Stefano Dal Re, responsabile di rauschpfeife e whistles. Una carenza d’organico rea di togliere qualcosa in merito all’”etnicità” dei pezzi, che, per converso, godono di un impatto maggiore a livello di resa generale, benché, alla pesa finale sulla bilancia, appare un lieve peccato che si perdano certe arcane e magiche sfumature.

La setlist, pesca principalmente dal lavoro in studio più recente, dall’evocativa intro “Solitaria Quiete” all’apporto di Davide Cicalese dei Furor Gallico in “Piana Dei Lovi”, canzone sul ritorno dei lupi sulle Alpi provvista di un ritornello di straordinaria presa emotiva, da una briosa “Rivus Altus”, che racconta la nascita del Carnevale di Venezia alla “vecchia” “Ciada Delàmis”, deputata a risvegliare il nostro intimo cavaliere medievale, sino al fascino lunare di “Antares”, traccia ecologista dalle vibrazioni cinematografiche e pregna di cori orecchiabili. Mediante le note dell’intensa “Vaia”, incentrata sulla tempesta che devastò il Triveneto nel 2018, la band ammonisce riguardo alla ribellione della Natura, laddove “Vallòrch” spinge ciascun avventore a ritrovare lo spirito battagliero degli antenati, con una porzione della torma tesa a simulare le movenze sincroniche dei rematori delle galee, con la longobarda “Hrodgaud” e il refrain incontenibile di “Haereticalia” che conducono alla notte dei roghi di “Panevìn”, capace di incendiare definitivamente il cuore e l’anima degli uditori. Sudore e birra a profusione, dunque, per una performance da applausi torrenziali.

Setlist

Solitaria Quiete
Pian Dei Lovi
Rivus Altus
Ciada Delàmis
Antares
Vaia
Vallòrch
Hrodgaud
Haereticalia
Panevìn

Furor Gallico

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Dopo un problema tecnico di natura vaga, colpevole di un ritardo di un quarto d’ora sulla tabella di marcia, alle 22.30 circa prorompono in scena i Furor Gallico, rinforzati dalla partecipazione al microfono di Emily Van Dark della Spleen Orchestra, artefice di una prova autorevole e per nulla inferiore ai contributi su disco di Valentina Pucci. I lombardi, attivi dal 2007, possiedono delle caratteristiche parecchio peculiari, visto che, nonostante i ritmi di rilascio piuttosto lenti e una line-up dall’impostazione molto diversa rispetto ai tempi dell’esordio omonimo (2010) e di “Songs Of The Earth” (2015), non ha mai subito grosse flessioni in termini di popolarità, anche grazie ai frequenti tour intrapresi nel corso degli anni attraverso l’Europa. In forma a dir poco smagliante Davide Cicalese, bravissimo nell’alternare un growl unto di scream a un cantato pulito di cui sta diventando padrone ormai assoluto e disinvolto, mentre sorprendono e divertono le grida di desiderio del pubblico nei suoi confronti: sembra enorme, infatti, la brama di vederlo nudo, ma ci si dovrà accontentare, tra risa ed espressioni incredule del singer, di un lembo di pettorale e di qualche centimetro di pelle qui e là. Una platea, comunque, che, al netto di tale simpatico rifiuto, non smette di cantare e saltare dinanzi alla trasposizione live quasi perfetta di una scaletta che, pur opima di piste estrapolate dal nuovo album “Future To Come” (2024), partendo proprio dal medesimo con la folgorante doppietta composta dalla semi-aggressiva “Call Of The Wind” e dalla cattiva e massiccia “Among The Ashes”, inanella una serie di inni iconici del calibro di “Canto D’Inverno” e di una “La Caccia Morta” prima della quale il bassista Marco Ballabio invita la folla ad aprire un varco al centro della sala per consentire l’esplosione di un umidiccio e vorticoso porgo.

Da manuale, poi, la prova dei protagonisti sul palco: l’arpa celtica discreta, eppur fondamentale, di Becky Rossi, il drumming a tarantola di Mirko Fustinoni, le incantevoli punteggiature di flauto e bozouki di Massimo Volontè, i fraseggi incisivi e mai banali di Gabriel Consiglio, che imbraccia la chitarra acustica in “Future To Come”, brano che chiude il cerchio della condivisione di narrazioni intorno al fuoco inaugurato dalla previa “La Notte Dei Cento Fuochi”, altro anthem di rilievo e veemenza memorabili. Fra accendini e torce dei cellulari in posa atmosferica, training di canottaggio endogeno, i blastbeat di “Phoenix” e un frontman che surfa giulivo sulla moltitudine successivamente alla chiusa “Anelito”, l’esibizione si avvia ai titoli di coda, con l’unico attimo debole rappresentato, forse, dall’ancor incerta versione dal vivo della power ballad “Birth Of The Sun”, la traccia più “pop” scritta dall’act del Settentrione e che la dice lunga sull’attitudine del combo nell’andare oltre – già da un po’, a onor del vero – il vetusto binomio celtic folk/death metal. Macchia veniale facilmente emendabile con costante attività di rodaggio e limatura, e che non intacca una prestazione di squadra al calor bianco e dal sapore antico. E ulteriore conferma che italians do it better!

Setlist

Call Of The Wind
Among The Ashes
Venti Di Imbolic
Ancient Roots
Birth Of The Sun
Nebbia Della Mia Terra
La Notte Dei Cento Fuochi
Future To Come
Canto D’Inverno
Waterstrings
Black Skies
Phoenix
La Caccia Morta
Anelito

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